19.10.2023
«Ho capito che non ero nata attrice, avevo solo deciso di diventarlo nella culla». Di lei rimangono il simbolo della romanità, l’antesignana del ruolo delle donne e dell’emancipazione femminile, rimangono i suoi film, l’Oscar vinto e quella corsa dietro il camion dei prigionieri prima di cadere uccisa dalla raffica di un mitra nazista.
Quella risata liberatoria, quando chiude il portone di Palazzo Altieri (dove abitava) in faccia a Fellini che cerca invano d’intervistarla in Roma (1972), continua a risuonare tra i vicoli della capitale.
«A Federì, va’ a dormì, nun me fido»
Perché lei, dietro il volto angoloso, l’insanabile disincanto di Roma grottesca e nobile, prossima allo sfacelo, ma eterna, se lo portava dentro. La “non bellezza” di Anna Magnani, oltre gli stereotipi del parlare passionale colorito coniuga lo sfaccettato professionismo in scena o al cinema in un singolare impasto di rigore e disobbedienza, con svolazzi d’originalità e una tenerezza intima.
L’irsuta protagonista di Teresa Venerdì e L’onorevole Angelina, di Bellissima e Mamma Roma, di Assunta Spina e Roma città aperta, aveva ipnotizzato i più importanti registi come De Sica e Visconti, Pasolini e Rossellini, Renoir e Cukor, incapaci di arginare quella sua capacità vitale di travolgere recitazione e quotidianità, amicizie e amori, sofferenze e gioiosità contagiosa.
«Ho capito che non ero nata attrice, avevo solo deciso di diventarlo nella culla, tra una lacrima di troppo e una carezza di meno», era diventato l’eco di una carriera luminosa, che dal romanesco, l’aveva proiettata a Hollywood, dagli stornelli e dal varietà all’introspezione e all’Oscar (‘56), seguendo una linea, poi modulo recitativo fatto di tecnica raffinatissima (liceo, pianoforte e Accademia d’Arte Drammatica), capace di scavare dentro le sceneggiature per plasmare l’interpretazione del personaggio e aderirvi con naturalezza. In quegli occhi persi, tutta la dolenza di un padre scappato e di una madre a Alessandria d’Egitto a rifarsi una nuova famiglia, un collegio soltanto sfiorato, un groviglio d’emozioni mitigato da una nonna e cinque zie prodighe di affetto e premure. Così, la voglia di riscatto e di attenzioni, e quello sguardo grifagno erano diventati compagni tra sconfitte cocenti e vittorie esaltanti, dal varietà al teatro classico, dal cinema leggero al neorealismo.
E la regina che vestiva i panni da popolana, tutta impeto, ma studiatissimo, lontano dall’istintualità, e che aveva tesaurizzato le indicazioni di Luchino Visconti («Un’attrice così potente da diventare autrice del suo personaggio»), vivificando pure l’ammirazione di Tennesse Williams che per lei aveva scritto La rosa tatuata, diventato film dopo il rifiuto di debuttare in scena a Broadway, era la stessa signora che sui tetti imporporati dai tramonti romani chiacchierava con il suo vicino Carlo Levi, o la gattara che di notte si aggirava tra le rovine imperiali del centro con cartocci di cibo agli amati randagi. Ma non è l’amore di una mamma per sua figlia che reputa Bellissima (non accorgendosi del marcio che circonda il mondo dello spettacolo) a colpire, quanto quell’urlo straziante «Francesco, Francesco!» in Roma, città aperta (1945) di Roberto Rossellini, quel suo divincolarsi affannato per correre dietro il camion con i prigionieri, prima di cadere sotto la raffica del mitra, nel paesaggio neorealista desolato della Casilina sotto la dominazione nazista. Il giovane Pasolini, da Casarsa, aveva percorso quaranta chilometri in bicicletta per andare a vedere il film a Udine: «Subito, alle prime inquadrature, mi travolge e rapisce… l’intermittence du coeur».
Nelle occhiate vive e mute della Magnani c’era il senso della tragedia, la forza tellurica della sua figura di donna dentro e fuori dello schermo.