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Il calcio italiano deve guarire, pesano gli stipendi, non funziona e non guadagna

09.08.2023

È un settore fondamentale per l’immagine italiana all’estero. Ha perso miliardi negli ultimi anni e, a differenza degli altri Paesi, non è mai riuscito a solleverai dalla crisi pandemica. Un rapporto federale analizza le cause e prova a inquadrare soluzioni, di una situazione oltre il limite.

Una grande passione nazionale, ma anche un settore economico che incide notevolmente sull’economia del Paese. Che però, ormai da diversi anni, fa registrare perdite miliardarie all’anno. Stiamo parlando del calcio, non solo un passatempo per tifosi più o meno appassionati, ma una vera e propria industria che lungo lo Stivale sta registrando una crisi strutturale profondissima. Da non sottovalutare, per il bene economico dell’intera Italia, ma le cui soluzioni non sono semplici né immediate.
La questione è stata analizzata dal ReportCalcio, rapporto annuale sul calcio italiano e internazionale messo a punto dal Centro Studi della Figc grazie alla collaborazione di Arel (Agenzia di Ricerche e Legislazione) e PwC Italia. I dati, frutto anche dello studio “Social return on investment”, svolto in collaborazione con la Uefa, sono particolarmente severi.

L’Italia, come buona parte del resto del mondo, ha pagato l’emergenza Coronavirus anche nel settore del calcio. A differenza di altri Paesi, però, non è riuscita a reagire negli anni di ripresa dopo lo shock pandemico. Se infatti i calciatori tesserati dalla Figc sono tornati nel corso della stagione sportiva 2021-2022 ai livelli pre-Covid (sono cresciuti del 24,9%, pari a 1,4 milioni di atleti), le casse piangono. Nello stesso periodo, infatti, si è registrata una perdita aggregata di 1,4 miliardi di euro. Un dato superiore a quello del 2020-2021 e che rientra in un quadro generale in cui il settore continua ad affrontare colossali problemi finanziari. Basti pensare che nel giro di tre anni il calcio professionistico italiano ha perso quasi 3,6 miliardi di euro.

Questi dati non sono affatto di poco conto, se pensiamo che l’impatto del calcio sul Pil dell’Italia ammonta a oltre 11,1 miliardi di euro, e che i posti di lavoro che l’industria genera sono vicini alle 126 mila unità. I ricavi arrivano invece a ben 5 miliardi di euro, mentre dal punto di vista fiscale e previdenziale il contributo di Serie A, B e C alle casse dello Stato è superiore a 1,3 miliardi (dati del 2020).
Questo significa che, negli ultimi 15 anni, ogni euro che il governo ha investito nell’industria del pallone ha generato un ritorno di 18,9 euro. Nello stesso periodo, infatti, i contributi statali non hanno superato gli 891,6 milioni.

Ecco perché urge una soluzione, a fronte di un problema molto chiaro.

«Sui conti continua a pesare in modo determinante il costo degli stipendi, che nell’ultima stagione sfiora l’84% dei ricavi – ha spiegato a ‘Forbes’ Federico Mussi, partner di quella PwC Italia che ha contribuito alla stesura del rapporto –. Il settore continua ad attrarre capitali e investitori. Ma, rispetto ad altre leghe europee, il calcio italiano presenta peggiori parametri economico-finanziari, una maggiore dipendenza dai ricavi televisivi, minori misure a sostegno dei giovani e minori investimenti infrastrutturali. Queste ultime appaiono sempre più indispensabili per guidare la crescita del sistema calcio e non solo».

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