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Cronaca

Infermiere a domicilio, nuova inter-professionalità nel contesto sanitario

19.05.2023

Nel sistema sanitario territoriale ha fatto il suo ingresso l’Infermiere di Famiglia e di Comunità. Un modello assistenziale infermieristico che agisce sul territorio all’insegna dell’inter-professionalità. L’intervista.

Prendersi carico dei pazienti fragili e con cronicità soprattutto nelle loro case, aiutarli nelle terapie ed evitare che, per fare fronte alle proprie esigenze, affluiscano in ambulatori e pronto soccorso, affollandoli. È la missione dell’Infermiere di Famiglia e di Comunità, figura professionale entrata nell’organizzazione sanitaria territoriale con competenze specialistiche nelle cure primarie per aiutare il paziente a gestire una malattia o una disabilità cronica in stretta sinergia con il medico e con gli operatori della rete ospedaliera. Ce ne sarà sempre più bisogno, tenuto conto che tra gli over 65 italiani, quasi 3 milioni risultano non autosufficienti e che il loro numero è destinato a rappresentare, entro il 2050, un terzo della popolazione. A spiegare come si svolge questa attività è Cinzia Prometti, Coordinatrice IFEC dell’Azienda Ospedaliera Papa Giovanni XXIII di Bergamo, la città più colpita dal Covid.

«Ci siamo presentati come professionisti della salute, attivatori di processi infermieristici territoriali. All’inizio è stato difficile farsi capire dalla popolazione e dai colleghi. Le persone si aspettavano da un infermiere la parte prestazionale. È stato difficile far capire che noi davamo molto di più rispetto a una singola prestazione, prendendo in carico la persona nel suo insieme e spesso prendendo in carico anche il caregiver, dal momento in cui entravamo nelle case delle persone. Di fatto, siamo soggetti di proattività e prossimità. Rispetto al target di utenza, abbiamo a che fare con pazienti dalla nascita a fine vita, quindi copriamo l’intero arco temporale della vita. Nel periodo del Covid ci siamo orientati sui fragili, che il più delle volte sono le persone anziane, provvedendo al loro accompagnamento dopo le dimissioni. L’obiettivo è perseguire la qualità di vita. Siamo convinti che il posto dove la persona sta meglio sia il proprio domicilio».

In tema di inter-professionalità, come sta crescendo il riconoscimento di questa figura nel contesto sanitario?

«Nonostante la partenza difficoltosa, ci siamo resi conto da subito che da soli non andavamo da nessuna parte. Per riuscire ad ottenere un risultato e raggiungere un obiettivo, è importante lavorare insieme agli altri attori presenti nella rete sanitaria territoriale. Potremmo definire il nostro ruolo “work in progress”. Il responsabile della salute della persona è il medico di medicina generale. Quando si attiva un servizio, è con lui che ci confrontiamo per conoscere il paziente e svolgere al meglio le nostre mansioni. La versione che il paziente tante volte fornisce a noi infermieri circa i suoi bisogni è diversa rispetto a quella relativa alla componente sociale. Per questo occorre raccordarsi».

Come avviene la formazione dell’IFEC?

«Da quando è uscita la normativa Decreto Rilancio, il Papa Giovanni XXIII (fronte di fuoco nella lotta al Covid, ndr) ha emanato subito una manifestazione di interesse rivolta a tutto il suo personale, ricevendo molte adesioni. I criteri che si prendono in considerazione sono il titolo di studio, quindi laurea magistrale e master dedicati. Ma si tiene in considerazione anche chi ha lavorato in reparti vicini al territorio. Queste persone ricevono una formazione teorica e pratica su una serie di punti strategici. Mi chiede se è la professione infermieristica del domani? Si, lo è».

 

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