23 Novembre 2024
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Memoria, Sanità, Società

“La libertà è terapeutica”, cento anni di Franco Basaglia

19.03.2024

Vecchia camicia di forza psichiatrica.

Dapprima tutti contro; dopo, tutti a favore. Il suo è stato un atto rivoluzionario che ha cambiato il percorso della psichiatria e il concetto stesso di cura, avviando una profonda riflessione sull’evoluzione democratica della società italiana.

In un Paese come il nostro, incline alle santificazioni, la tentazione di accasarsi all’effigie appare evidente. Dapprima tutti contro; dopo, tutti a favore. Lo sforzo culturale (e scientifico) che seppe incidere così profondamente in un sistema accademico retrivo e ad una classe politico-amministrativa farraginosa, era riuscito a rompere gli schemi. Così, il nome di Franco Basaglia, a cent’anni dalla nascita, rifulge di luce propria in un contesto quale l’attuale, in cui si avvertono come un riflusso percezioni del disagio mentale ancora vittima di una socialità precaria. Abbattere l’istituzione manicomiale per restituirne la libertà, facendo della dignità del malato un traguardo di civiltà, aveva trasformato l’azione d’un manipolo di medici d’una Trieste inconsapevole, una vera e propria rivoluzione.

Con l’incipit a Gorizia nel 1961, quando la riflessione filosofica ed umanistica (Jaspers: l’“essere” in quanto essere umano; Husserl: ruolo svolto nel contesto sociale; Foucault: critica al potere istituzionale) di un giovane neurologo, Basaglia, chiamato a dirigere l’ospedale psichiatrico, si raffrontò non solo ad internati (oltre 100.000, in Italia), sottoposti a elettroshock, lobotomie, docce gelate, camicie di forza, umiliazioni ben oltre i letti di contenzione, ma ad esseri umani deprivati di volto e storia personale, espressione di una logica sociale volta all’annientamento dell’altro, poiché diverso/malato, da nascondere, dimenticare.

La legge del 1968 col ricovero volontario presso gli ospedali psichiatrici (eufemismo: i 90 manicomi dell’epoca), diede vita ad un lento processo di trasformazione, che incarnando l’anima critica (1973) di “Psichiatria democratica” e il referendum del Partito radicale (1977) per la chiusura dei manicomi stessi, “costrinse” il neonato Sistema sanitario nazionale, a contemplare la salute mentale (stralcio di Tina Anselmi), per arrivare al varo della legge 180, il 13 maggio del 1978. La pavidità teorica dell’approccio clinico precedente era stata soppiantata da un ribaltamento di prospettiva che poneva la condizione umana come atto prioritario inalienabile, con la sospensione d’ogni forma di giudizio, per considerare, invece, l’individuo nella sua interezza, partendo dalla storia di vita, comprese emozioni e malessere, dal ruolo sociale svolto, seguiti (solo) dopo da diagnosi e terapia. Il cambiamento epocale diventava “modello relazionale paritario medico-paziente da istituire nelle comunità terapeutiche, al posto dei manicomi”, riconosciuto anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: il malato veniva prima della malattia, bisognava ascoltare le sue storie, senza anteporre la diagnosi. Tutto bene, dunque? Non proprio. Secondo Peppe Dell’Acqua, psichiatra (con Basaglia dal ’71): «Le Regioni hanno venti sistemi sanitari differenti, con diseguaglianze e uso sempre più inappropriato delle risorse. Abbandoni colpevoli, centri di salute mentale vuoti, ambulatori isolati in territori non curati, pur in presenza, in tanti luoghi, di gruppi di lavoro e amministratori capaci che utilizzano proprio la Legge 180 come strumento di progresso, arricchimento sociale e buone cure, inducono tristemente a pensare ad una sorta di regressione: i ‘matti’ sono rientrati nel grigiore dei luoghi comuni, nella categoria dello scarto». “La libertà è terapeutica”: quel graffito nell’Ospedale Psichiatrico San Giovanni a Trieste, non vorremmo che finisca per essere un’eredità del passato. Franco Basaglia vigila: «La follia è una condizione umana. La società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia».

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