28.05.2024
“La parolaccia fa guadagnare voti”, brutta fine del linguaggio
Tutti d’un fiato: handicappato, zingaro, rom, crucco, terrone, nano, negro, frocio, checca, barbone, ebreo, vecchio, grasso, mongoloide… Testimone della quotidianità, amplificato dai media, il florilegio del linguaggio scurrile sconfina nel privato e nel pubblico, conquistando anche il mondo della politica.
Il turpiloquio ha accompagnato la storia dell’umanità, ed oggi che è entrato nella geografia composita della Rete, dove i contenuti sono modificabili, s’inserisce nel bla-bla generale. Parolacce e insulti rimbalzano da spot e cellulari, veicolando la violenza verbale che ha invaso l’ambito pubblico e il disagio esistenziale che in tv fa audience. Da elemento di contestazione contro istituzioni, scuola e famiglia, ha finito per veleggiare negli uffici, sostare negli happy hour, intrufolarsi nelle chiacchiere fra amici, rivestirsi di machismo, e animare il caravanserraglio di Internet, scatola magica della (in)visibilità.
La parola ingiuriosa, retaggio polemico di una classe d’emarginati ed esclusi, ha conquistato le platee dei “grandi fratelli”, infiorettate di beep, per trasformarsi in rumore di sottofondo: un tic, un intercalare che investe fasce giovanili ed anziane. In un Paese dove i dati di lettura sono allarmanti ed il 40% dei quindicenni non comprende il significato dei testi scritti (Save the Children) con un vocabolario di base sempre più striminzito (le parole usate e capite da tutti, dalle 7000 degli anni ’80 alle 1500-1000 d’oggi, secondo Tullio De Mauro), la propensione alla sbracatezza diventa habitus mentale. Vietati i termini moralmente sconvenienti (anche se linguisticamente fulminanti), in ottemperanza al mix politicamente corretto-cancel cultur-woke-MeToo.
Tutti d’un fiato: handicappato, zingaro, rom, crucco, terrone, nano, negro, frocio, checca, barbone, ebreo, vecchio, grasso, mongoloide… nelle disparate sfumature gergali scaturite dalla linfa dialettale e dalle lingue regionali. Nel crogiuolo, di solito irrisorio ed offensivo, delle pulsioni fondamentali: il sesso, l’aggressività, i comportamenti sociali e interpersonali, incardinati da rabbia, sorpresa, disgusto, paura, divertimento, scherno. ecc. Aggiungendo, poi, la bestemmia (arma in declino), quella “folle imprecazione contro la divinità” (dal Boccaccio a Dante, in poi), sintomo di una religiosità esasperata di chi chiede attenzione all’ente supremo, secondo il professor Pietro Trifone, docente universitario di Storia della lingua italiana. Quest’ultimo, attentissimo a cogliere il percorso del turpiloquio dal Medioevo fino ai giorni nostri, con il dato, tra il 1900 e il 2004, di una presenza delle parole volgari pari al 60% del totale, contro il 40% di tutti i secoli precedenti (in base al GRADIT, il Grande dizionario italiano dell’uso), da attribuire «essenzialmente al progressivo affermarsi di comportamenti e nuove forme di comunicazione». Magnificate dal successo planetario dei social media: terreno fertile perché gli insulti potessero crescere e veicolare violenze e sfoghi e frustrati. Per tacere della «parolaccia che fa guadagnare voti», con annessa tendenza al ribasso del discorso politico (dal celodurismo di Bossi al Vaffa Day di grillina memoria); farà pur regredire la coscienza critica degli elettori ma “chissene”, nella forma tronca (apocope), ma incisiva di un gergo giovanile (“raga”, “tranqui”) nell’istantaneità delle piattaforme digitali (Sms, X-twitter).
E nel recente workshop “Comunicazione e parolacce” preso l’Università IULM di Milano, attraverso i corpora, collezione (scientifica) di testi dell’italiano parlato, s’è condensata l’esigenza di conoscere i livelli di offensività del turpiloquio, metafore comprese. Scusate, ora volo a Roma, voglio immergermi nelle scurrilità dei camerieri di “Cencio – La Parolaccia”, davanti ad un bel piatto di bucatini all’amatriciana. Aspettando il marchese del Grillo: «Io so’ io, e vvoi nun siete un c.», suggeritogli da Giuseppe Gioachino Belli. Per restare in tema.