07.06.2023
Senza opere, con meno costi, ma sempre più visitate: le mostre multimediali immersive diventano un fenomeno economico di grande rilevanza per il mercato dell’arte. Distanti dalla funzione educativa e conservativa di un museo, o rivoluzione artistica? Gli esperti si dividono, tra chi grida alla frode e chi vede nel processo digitale la vera rinascita dell’arte.
L’invito, tra il serio e il faceto, era stato chiaro. E se ce ne andassimo in discoteca o al mare, ospiti di Vincent? Chi? Massì, Vincent Van Gogh, pronto ad accoglierci con le sue opere (Immersive Experience), non sulla spiaggia ma a Lampo Scalo Farini, spazio di 9000 metri quadrati al coperto (su 40.000) in una Milano dedita a riqualificare con fermenti culturali aree dismesse. In un attimo si viene proiettati in un’altra realtà frutto di ibridrazione tra passato da tesaurizzare e futuro da intessere. Sembra di stare sul bagnasciuga (ecco il paradosso), quando seduti su delle sdraio si fissano i ghirigori onirici bluastri della Notte stellata (1889) vista attraverso lo spicchio di finestra del manicomio di San-Rémy.
Ma allora siamo al Moma di New York? Nient’affatto, piuttosto nel paese delle meraviglie tecnologiche (senza Alice), dove i “quadri hanno più voce delle parole”, e vengono proiettati dappertutto su soffitti, pareti, pavimenti, con i visitatori inglobati da uno strano senso d’appartenenza perché ospiti-protagonisti delle stesse tele. Ci si lascia andare, avvolti dal giallo dei Girasoli e invasi da musiche, fin quasi (quasi) allo “sballo” (l’effetto discoteca), con uno strano senso di straniamento che vampirizza luci, colori e le stesse vibrazioni di chi entra in contatto (virtuale) per la prima volta con un’opera d’arte, penetrandola.
Il sistema museale ha colto la percezione di un pubblico giovanile ormai calibrato sulla multimedialità, da fronteggiare con tecnologie ed applicazioni inedite, che consentano un riposizionamento nell’insolita veste di co-produttore dell’opera stessa. Si comprende quanto una operazione simile possa essere sperimentazione postmoderna, offrendo “spazi discorsivi” (nei musei anchilosati) per coinvolgere maggiormente i fruitori nello sviluppo di percorsi audiovisivi, applicazioni. Tra sostenitori e denigratori, queste mostre sono da annoverare come esperienze o semplicemente come “spettacoli” tali da scandalizzare i puristi? E se per Van Gogh la malattia ebbe la meglio sulla psiche ma non sul suo atto creativo perché le tele “parlanti” invitavano alla vita, l’accelerazione ipertecnologica costituisce per il mondo giovanile un’opportunità da cogliere, nel trasformare una pratica estetico-artistica (come quella di una mostra immersiva) in un impatto diverso sulla circolazione e valorizzazione dei beni culturali. La riproduzione comporta la “perdita dell’aura” dell’opera d’arte teorizzata da Walter Benjamin, sottraendo le unicità.
La smaterializzazione dei nostri tempi di cui i giovani si nutrono avanza imperterrita. Il format che miete consensi in tutto il mondo e obbedisce a strategie marketing, ad aziende private che affittano grandi spazi espositivi per riempirli delle animazioni digitali di centinaia di opere (come per Picasso, Monet, Klimt e Frida Kahlo) destinate ad essere reinterpretate e ricontestualizzate a costi ridotti, ha assunto il carattere di un vero e proprio “museo per selfie”. Il ricordo online di visitatori festanti impegnati ad immortalare la propria immagine, veicolata poi da Instagram o da Tik Tok (caso Ferragni in posa davanti alla Venere di Botticelli, docet), utilizza l’arte come sfondo, sacrificando l’esperienza multisensoriale sull’altare unidimensionale della fotogenicità, vanità personale e affari lucrosi (per chi organizza) compresi.