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L’incontro con l’altro: la storia di Mirella Riccardi, psicoterapeuta di Medici Senza Frontiere

08.11.2024

«Ogni missione è un incontro con l’altro, unico e irripetibile». Lavorare in contesti di guerra e di povertà, prestando sostegno psicologico alle persone: il racconto di Mirella Riccardi, giovane psicoterapeuta che lavora con Medici senza Frontiere, all’interno di missioni umanitarie in varie zone del mondo.

Perché ha deciso di dedicarsi a questo lavoro?

«Non sono mai stata silente rispetto a quello che il mondo esterno mi mostra, che sia di dolore, di stupore, di gioia o di curiosità. Credo che alla base ci sia una profonda curiosità verso l’altro e l’altrove».

Qual è la sua storia con Medici senza Frontiere?

«È iniziata nel 2019. Ho cominciato in Congo, si lavorava con persone sopravvissute alle violenze sessuali, in un contesto di ebola. Quando sono tornata, era marzo 2020 e in Italia c’erano i primi casi di Covid; quindi, siamo stati mandati a dare supporto agli ospedali. Dopo alcuni mesi, sono partita per lo Yemen, durante un conflitto di guerra, ero in un ospedale materno-infantile. È stato un percorso molto interessante perché è stato il mio primo Paese medio-orientale. Poi sono stata ad Haiti, che era territorio di guerriglie urbane e molti scappavano per rifugiarsi in zone altre della città, lavoravamo in quartieri in cui era veramente difficile accedere. Dopo, sono stata nove mesi in Palestina per un progetto molto lungo, dedicato alla salute mentale rivolto alla popolazione in Cisgiordania. È stata una missione lunga e densa, e poi, sono stata di nuovo in Congo, a Goma. Adesso inizierò un progetto a Parigi, lavorerò con i minori migranti non accompagnati».

Ha mai avuto dei ripensamenti?

«Durante le missioni a volte si borbotta una certa stanchezza, però ho troppa passione per il mio mestiere e tanta stima e fiducia per Medici senza Frontiere. Le difficoltà ci sono, vediamo le cose più brutte e a volte si pensa “Basta”. Ma è anche un lavoro che ti fa vedere la meraviglia, che dà la possibilità di incontrare persone, di stare in contesti complessi e impattanti. Richiede uno sguardo autoanalitico, e poi c’è il rapporto con i colleghi: non si è mai da soli, serve capacità di lavorare in equipe, alla sera si cena spesso insieme e ci si rincuora, si dà energia insieme. Non riuscirei a vedermi a fare altro».

Tra tutte, quali sono le situazioni più difficili?

«Quando siamo di fronte a persone che decidono di togliersi la vita. In quei casi servono cure multidisciplinari, una presenza e una costanza importanti. Quando fuori c’è la guerra e la persona ti dice “Io non voglio più vivere”, è perturbante, e allora si lavora tutti insieme, ci vuole tecnica e umanità, e a volte ci vuole il silenzio. Silenzio e saper solo stare accanto».

Com’è il ritorno alla “vita normale” dopo una missione?

«Il ritorno è complesso, forse più delle partenze. C’è un misto di condivisione dell’esperienza vissuta con le persone più care e di sapere che alcune cose non sono condivisibili, perché sono esperienze dense, che si vivono e si condividono con il team in quel momento, in quel contesto. Metterle in parole, a distanza di mesi, con altre persone, non è sempre facile. A volte lo si fa con le persone più care. Tornare significa anche tornare a beneficiare di quelli che io considero privilegi. Avere sempre l’acqua calda, poter fare una passeggiata senza la paura di un’aggressione o di una bomba, avere la libertà. Al ritorno, sento questi privilegi e sono grata di poter vivere la libertà».

Ha dei progetti futuri?

«Adesso sarò impegnata a Parigi. Non riesco a vedermi nel futuro, perché anche quando sono in pausa dalle missioni, noi colleghi la chiamiamo “la chiamata del terreno”, c’è il desiderio di andare, progettare. A me piace lavorare in team, lavorare con MSF mi arricchisce profondamente; quindi, non so dire se e quando uscirò dal ritmo delle missioni».

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