19.05.2024
Cosa può significare per noi spettatori moderni un testo Shakespeariano che mette in controluce la raffigurazione di una comunità schiava del denaro e regolata dall’ipocrisia. Ieri come oggi? La risposta è nel Mercante di Venezia diretto da Paolo Valerio.
Intabarrato nella zimarra nerastra, tra pensieri di rivalsa e traffici ad usura da compiere, Shylock, stereotipo dell’ebreo avido, si confonde con l’atmosfera plumbea di una facoltosa Venezia del XVI secolo, porta d’Oriente, illuminata da tremuli lampioni festosi. Anche se il protagonista è Antonio (Piergiorgio Fasolo), il ricco mercante di Venezia, punta di un “capitalismo di ventura” dissipatore, che si mette nelle mani dell’usuraio per favorire l’amico Bassanio (a cui lo lega un rapporto omoerotico), proteso alla conquista della bella Porzia, signora di Belmonte, in attesa dell’arrivo delle tre navi che ha per mare. Prestito concesso, a patto di un’inusuale garanzia: una libbra di carne dello stesso Antonio, in caso d’insolvenza. E, quando le navi naufragano e il debito non viene onorato, l’appello davanti al Doge della Repubblica diventa gorgo malmostoso d’un ebreo della diaspora. L’invocazione della “Penaaale!”, rancorosa verso i veneziani che lo umiliano, strascicata da Franco Branciaroli-Shylock, nella proteiforme capacità drammatica di desideri, rabbie, cinismo, dai toni caricaturali iniziali, irridenti, si fa rasoiata testoriana e causticità bernhardiana.
In una società ostile e persecutoria rivendica il rispetto del diverso, una rivincita a fronte delle troppe sconfitte, mediante la crudele odiosità d’una libbra di carne umana. L’impianto registico di Paolo Valerio ruota attorno al piano scosceso di una tragicommedia ambivalente se non ambigua (sul filo d’elementi antisemiti legati al tempo elisabettiano), che glissando le insidie di una lingua tradotta (a condizionare anche l’interpretazione), dal terreno favolistico di amori contrastati, scivola su una vicenda d’affari, nel gioco di speculazioni incrociate tra amici “cristiani” che si oppongono ad un singolo ebreo, addossando le colpe al“diverso” (confinato con gli altri nel ghetto a Canaregio, dal 1516, e a restrizioni legali) ma non alla legge della Serenissima per il concentramento (seppur ad essa funzionale) del credito con interesse (usura) a tasso da strozzinaggio, ritenuto peccato mortale. Il motore non sono i buoni sentimenti, ma il denaro, l’interesse economico travestito da amore, amicizia, libertà, tanto che il “cattivo” Shylock, senza maschere, è il personaggio più autentico anche se disprezzato. È lui che illumina le contraddizioni di una società materialista e ipocrita, piegata al sentimento del rancore che essa stessa ha prodotto, facendo affiorare il marciume di un potere, presagio della moderna finanza che irrompe nel sistema declinante della città marinara. In un contesto dove male e bene si confondono, l’acutezza cognitiva di Shakespeare sottolinea la psicologia della mutabilità (Harold Bloom, il suo più grande studioso) di chi non sa coniugare il dovere con il diritto, la giustizia con l’umanità, l’amore con il disinteresse. Riletto nello spirito del suo tempo, di chi prevale e di chi soccombe, anche nella nostra contemporaneità che disprezza e isola l’estraneo l’ipocrisia è ancora in auge consentendo a profitto e rendita di plasmare la vita della gente (testimone passiva si sfruttamento, squilibri) grazie al nascondimento dei reali flussi del dare e avere nel complessivo bilancio sociale, in politica, al lavoro, nei rapporti interpersonali.
Il cavillo giuridico finale di Porzia («l’obbligazione della libbra di carne non ti concede neanche una goccia di sangue») e il battesimo forzato, che costringe l’ebreo (spogliato dei beni) a rinunciare alla sua fede e all’identità, capovolge i valori cristiani di misericordia e perdono, colorandosi di vendetta. Sotto un cielo nero senza luna, Shylock ingabbiato nella sua amara eloquenza d’un dolore emarginato.