10 Dicembre 2024
Milano, 7°

Cultura, Scienza e tecnologia, Società

Quanto l’antropologia è natura?

Perché l’antropologia moderna è così controversa per l’essere umano? E quanto natura e “cultura”, intesa come insieme di abitudini acquisite dai membri di una società, siano due concetti sovrapponibili? Focus sull’esperienza scientifica di Dian Fossey e Simona Kossak.

Quando si parla di antropologia, bisogna seriamente intenderne il significato per inquadrare bene la materia e averne piena consapevolezza. C’è da chiedersi cosa avessero capito studiosi come Pierre Bourdieu, padre del sapere sull’incorporazione di disposizioni interiori ed esterne in continuo divenire, sul quale non ci soffermeremo. Perché l’antropologia (medica) “moderna” è così devastante per l’essere umano? Non abbiamo compreso o non siamo concordi sul “come” la nostra specie si sia evoluta nel mondo, ma sappiamo che oggi natura e “cultura”, intesa come insieme di abitudini acquisite dai membri di una società, si sovrappongono. Occorre “denaturalizzare” concetti, le verità cardine della nostra esistenza. Allora, ancora domande. Cosa avevano capito scienziate (non antropologhe, “cugine” preparate in scienze forestali o biologia) che hanno abitato con gli animali in mezzo ai boschi e studiato, di riflesso, la natura (umana)? Perché sono persone, in apparenza, “fuori dal mondo”?

Basti pensare a Dian Fossey, esempio scontato perché più conosciuta, che visse coi gorilla, morendo per mano d’ignoti nella sua capanna dopo aver riportato sul diario frasi che manifestavano, forse, timore per il futuro. Ma anche alla vita più serena di Simona Kossak, la scienziata reputata “strega” che parlava con gli animali, che aiutava a nascere cerbiatti dai quali era considerata, a giudicare dai loro comportamenti, la madre naturale.
Poi c’è il capitolo dell’antropologia critica, che guarda alle società scoprendo molto sulla necessità di conoscere le nostre dinamiche interiori con una visione ben più ampia di una postura priva di riflessività o di quella «biomedica». O ancor di più, sull’influsso che le componenti biologiche hanno nella percezione di noi stessi. L’esempio più “grave”? Ci si sente donne (vale anche per l’uomo) perché “biologicamente” tali? Perché ci si rispecchia, considerando il processo storico e la dinamica culturale dell’umanità, nella propria costituzione (anatomica, senza disgiungere mente e corpo), nei meccanismi del piacere (fisico), nello sguardo di chi ci osserva? C’è un’identità neutra, di cui si parla nel dibattito scientifico e politico, da acquisire scavando, con estrema difficoltà, la stessa difficoltà che fa buttar via libri, nei condizionamenti inscritti nella nostra percezione?

Si desidera un compagno o una compagna, si nutrono sentimenti (derivati dalla gratitudine nella circolarità così attivata), perché si prova piacere (fisico) unendoci a lui/lei e questo parla di continuo, attraverso il corpo, al nostro strato più profondo? Questo sguardo rivoluzionerebbe l’attuale assetto dell’essere percepito come “naturale”. Libererebbe, per chi avesse coraggio, un potenziale che è di solitaria scoperta, ma anche capacità di guardare al proprio sentire, a quello delle persone. Un sentire che non si può “colonizzare”, facendolo proprio, con un’”empatia” che è, quasi sempre, un vedere nell’altro troppo di “sé”.

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