21.11.2023
Trattativa stato-mafia. Perché il Giudice non è uno Storico?
In maniera tranciante, la sentenza della Cassazione sulla trattativa stato-mafia, che ha assolto dalle accuse gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, ha affermato che il giudice non può assumere il ruolo dello storico, specificando che: «fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria dai giudici di merito, deve rilevarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico».
Per la verità già Piero Calamandrei nel 1939, in un articolo pubblicato su una rivista giuridica dal titolo Lo storico e il giudice, aveva evidenziato un tratto comune tra i due mestieri, rappresentato dal fatto che entrambi sono chiamati ad indagare su fatti del passato e ad accertare se, come e quando essi si siano verificati, evitando sia di dare spazio a intuizioni di fantasia, sia di approdare a predeterminate opzioni di parte. Calamandrei ne sottolineava, tuttavia, le differenze, legate al fatto che l’accertamento del giudice deve essere vincolato alle regole del processo. Ciò che appunto non accade nel mestiere dello storico.
Da quel richiamo di Calamandrei molta acqua però è passata sotto i ponti e tante volte è accaduto che l’impostazione accusatoria sia stata in prima battuta influenzata dalla commistione tra i due mestieri. E ciò a partire dal processo Andreotti, rispetto al quale la posizione dei pubblici ministeri che sostenevano l’accusa in giudizio non era all’epoca unanimemente condivisa all’interno della Procura di Palermo, fino appunto al recente esito della trattativa Stato-Mafia. Il tutto favorito dalla stampa di riferimento pronta a fare da grancassa all’ipotesi accusatoria con l’evidente obiettivo di suggestionare l’opinione pubblica, di cui anche i giudici del processo fanno parte.
Ma il processo penale richiede imputazioni precise e fatti che devono essere provati, situazione questa rispetto alla quale la sentenza della Cassazione ha avuto ulteriormente modo di prendere le distanze dal metodo seguito dai giudici palermitani e ha precisato che, «conferendo di fatto preminenza a un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio, hanno finito per smarrire la centralità dell’imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio». Per usare le parole della Cassazione, lo “smarrimento della centralità della imputazione” segnala una patologia del processo penale che, per lo più, si verifica anche quando nelle richieste di rinvio a giudizio avanzate dai pubblici ministeri al giudice dell’udienza preliminare ci sono pagine e pagine di imputazioni che rendono incomprensibili i fatti di cui l’imputato è accusato. In questi casi si assiste a una evaporazione di quei fatti oggetto delle imputazioni, con il rischio di essere condannati per un sospetto e non già per una prova.
Ciò detto, c’è però un altro aspetto nella citata sentenza della Cassazione sulla trattativa Stato-mafia che merita di essere sottolineato. È quello relativo alla critica per la eccessiva lunghezza (migliaia di pagine) delle sentenze di primo e secondo grado che si erano occupate della vicenda in questione. Non si tratta di un fenomeno isolato nelle pronunce giudiziarie. La trasformazione delle sentenze in volumi enciclopedici è, infatti, strettamente legata al fatto che, per fare carriera, bisogna precostituirsi dei titoli, poiché, altrimenti, i profili professionali dei giudici rimangono tra di loro sovrapponibili in un sistema che, ancora oggi, all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura risulta caratterizzato dagli accordi tra le correnti. Per un magistrato precostituirsi dei titoli è assolutamente necessario per avere la possibilità di accedere agli incarichi semidirettivi e direttivi, così come per essere nominato giudice della Cassazione oppure per essere chiamato da un giudice della Corte costituzionale a fare l’assistente di studio.
In questo sistema è inevitabile che si verifichino anche situazioni in cui la lunghezza della sentenza è frutto di un “copia ed incolla” delle richieste del pubblico ministero. Quello che, ad esempio, è avvenuto al Tribunale del riesame di Venezia, che ha annullato un provvedimento del GIP per aver disatteso una norma del codice di procedura penale che impone al giudice di valutare autonomamente i fatti del giudizio senza appiattirsi sulle richieste del pubblico ministero.
Si continua in queste ore a parlare di riforma della giustizia e con toni trionfalistici la stampa di sinistra annuncia che il Ministro Nordio non intende più seguire la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri fino a quando non verrà approvata quella sul premierato. Insomma, nulla di nuovo sotto il sole ma il solito meccanismo di condizionamento per impedire un percorso riformatore della giustizia anche nell’interesse di quei magistrati che non facendo parte di cordate di potere e svincolati da logiche di appartenenza pretendono come tanti cittadini una giustizia giusta.