14.10.2024
La Corte dei Conti di Parigi sostiene che “occorre confermare lo stato giuridico” di Trinità dei Monti, avocandone la proprietà perché “costruita con fondi francesi”. Accade alla luce di un rapporto che critica aspramente la gestione “approssimativa” delle cinque chiese francofone di Roma e altri 13 immobili nel centro storico. Il chiarimento.
Ci fosse stato Totò, dopo la fontana di Trevi, avrebbe venduto anche la scalinata di Trinità dei Monti, ingaggiando un’aspra contesa con “monsieur le president” Emmanuel Macron. Roma è abituata da millenni alle dispute, e dopo aver conquistato la Gallia sa che i cugini d’oltralpe sono sempre inclini a qualche tiro mancino innaffiato dallo champagne della grandeur autoreferenziale e da uno spirito libertario rivoluzionario mai sopito. Così, lungo il disegno sinuoso dall’andamento mistilineo baroccheggiante, scivolando verso Piazza di Spagna, anche una scalinata-simbolo può essere oggetto di una boutade che vira al grottesco.
La Corte dei Conti di Parigi (secondo “Le Monde”) sostiene che “occorre confermare lo stato giuridico” di Trinità dei Monti, avocandone la proprietà in quanto “costruita con fondi francesi”, alla luce di un rapporto che critica aspramente la gestione “approssimativa” delle cinque chiese francofone di Roma (fra le quali ci sono San Luigi de’ Francesi con i dipinti del Caravaggio e appunto Trinité-des-Monts) per (non) tacere di altri 13 immobili nel centro storico. Commissionata dal cardinale Pierre Gérin de Tencin, col card. Melchiorre de Polignac mentore (sotto Luigi XV), costruita tra il 1723 e il 1725 (con Papa Clemente XI a dare l’imprimatur), e finanziata inizialmente dal diplomatico mecenate Etienne Gueffier (20.000 scudi), l’iconica scalinata disegnata dall’architetto Francesco De Sanctis è al centro di un garbuglio. A Roma, più che altrove, ci sono chiese ed altri immobili che non appartengono né allo Stato né alla Santa Sede, ma ad altri Paesi che li costruirono secoli fa e che ancora li sostentano, come nel caso della Francia che “detiene” 180 proprietà (uffici, negozi e appartamenti per un valore di 250 mln di euro) la cui locazione produce ricavi di 4,5 mln di euro annui utilizzati (potenzialmente) per il mantenimento ed il restauro dei luoghi di culto. E se le chiese vennero edificate fin dal 1450 per accogliere i pellegrini che passavano dalla Città Eterna, dopo la caduta della monarchia (1793) e i rigurgiti della Rivoluzione, fu la mancanza di indicazioni precise sulla loro gestione a indurre papa Pio VI ad affidare la loro amministrazione al cardinale de Bernis, l’allora ambasciatore di Francia presso la Santa Sede.
Poi, lo Stato Pontificio reclamò la loro proprietà ma solo nel 1801 furono restituiti alla Francia ed i beni affidati a “Pieux établissements de la France a Rome”, un’istituzione posta direttamente sotto l’autorità dell’ambasciata di Francia presso la Santa Sede. Ma i giudici francesi sono perentori: si registrano «tutela poco vigile, carenze numerose e manifeste, per beni non adeguatamente messi a frutto», da parte di un tesoriere con incarico a tempo indeterminato e con responsabilità troppo ampie e poco controllabili che stanno mettendo in discussione l’operato dei Pii Stabilimenti. Appare evidente che la Douce France non pretenda di sottrarre via le chiese e la scalinata (monumento, amministrato, restaurato e curato da Roma Capitale e dalle casse italiane dall’800 in poi), eppure il caso ha suscitato polemiche che inaspriscono la storica tensione sulla presenza di proprietà bleue-blance-rouge in Italia. Un fuoco incrociato di ripicche: «Vogliono pure la scalinata, i francesi ora esagerano» (Daniela Santanchè); «Allora noi dobbiamo riappropriarci di tutti i quadri del Louvre che Napoleone ha portato via» (Vittorio Sgarbi). Tranquilli. A mutare lo status giuridico di un luogo non è sufficiente la decisione di un organo della giustizia amministrativa di un altro Paese (valida, solo, entro i confini). Roma sorniona, nella sua bimillenaria dignità. Tutto qui appare inconciliabile, eppure compatibile.