13 Ottobre 2024
Milano, 17°

Memoria

Vajont, macchia nera contro la rimozione della memoria

07.10.2023

Veduta del sito commemorativo della diga del Vajont, inutilizzato dal disastro della frana del 1963.

263 milioni di metri cubi di roccia scivolano in blocco nel bacino artificiale del Grand Vajont, sollevando un’onda alta quasi 270 metri che supera la diga a doppio arco più alta del mondo. In questo modo fu chiusa la giornata del 9 ottobre del 1963 subendo l’Italia un’apocalisse che vale il doppio della bomba atomica su Hiroshima. Lunedì, un altro giorno per ricordare.

Era serena quella sera sotto la luna, poi d’un tratto spirò un vento impetuoso e un oceano intero si riversò a valle. E fu notte fonda, cieca e disperata. Un’apocalisse senza pari. Alle 22,39, dal Toc 263 milioni di metri cubi di roccia scivolano in blocco nel bacino artificiale del Grand Vajont, sollevando un’onda alta quasi 270 metri che supera la diga a doppio arco più alta del mondo. Il mare di fango si biforca, risale, spazza Erto, e poi dal Friuli si infila tumultuoso nella gola del torrente Vajont verso Longarone e il fiume Piave, in Veneto. Alle 22, 43, ingoia Longarone, e subito Vajont, Villanova, Pirago, e Rivalta, Castellavazzo, lembi di Faè e Codisaggo. Schianto dell’acqua e spostamento d’aria sprigionano un’energia devastante pari al doppio di quella prodotta dalla bomba atomica a Hiroshima. 1.910 vittime: 817 di queste non vengono più trovate, o identificate.

I minori di 15 anni uccisi sono 487. Tutti sapevano e nessuno si era accorto della frana incipiente, visibile ed in movimento da almeno tre anni? Il piano strategico dell’industria delle dighe e delle centrali idroelettriche, grazie alla Sade, aveva promosso il progetto del Grande Vajont, con più bacini collegati, tra il 1937 e 1945, assecondando i disegni autarchici del regime fascista anche dopo la sua caduta, in un vortice di profitti insaziabili di chi non si cura di migliaia di famiglie che vengono depredate di terreni espropriati, animali: vita e dignità rubate. E non bastano nemmeno gli articoli di Tina Merlin, giornalista indomita, già partigiana, che stigmatizza i comportamenti disinvolti di chi ormai, colosso (95,4 miliardi di capitale sociale), macina finanziamenti, contributi statali, e dividendi record per i propri avidi soci, marginalizzando gli allarmi di tecnici e docenti universitari (Padova) per le «prove di strage» tenute riservate.

Il passaggio Sade ad Enel, la nazionalizzazione, la quotazione in Borsa prevalgono sullo stato del monte Toc che continua a franare trascinando abeti, malghe, stalle, vacche. Gli allarmi sono minimizzati, nessun paese viene evacuato. Così, la storia più falsificata e ignorata del nostro boom economico post-bellico, si annida tutta nel «Che Iddio ce la mandi buona» di Alberico Biadene, l’ing. direttore del servizio costruzioni idrauliche Sade, ritenuto come maggior responsabile del disastro, in seguito condannato. Sarà perché il nostro resta un Paese fondato sulla rimozione della memoria, e dopo l’indignazione iniziale la conoscenza di fatti tragici non si trasforma mai in coscienza nazionale, ammantandosi di disonore per i troppi silenzi omertosi e quei ricordi disperati pieni di rabbia e sconforto, ma il senso di vergogna per un dopo che dura in eterno sembra essere nel DNA nazionale. Alla fine, non è cambiato nulla: tra una tragedia e l’altra, non catastrofi naturali, ma frutto di complicità tra persone, imprese e istituzioni.

Ponte Morandi, Romagna consegnata a frane e allagamenti, abusi edilizi con interi paesi spazzati via da piene e slavine, ricostruzioni mancate dopo terremoti e inondazioni, sorgenti e fiumi avvelenati dagli scarichi industriali, incidenti ferroviari. E sarà Marco Paolini (e 150 teatri in tutta Italia) la sera del 9, con VajontS per una Orazione Civile Corale, a ricordare la tragedia, sulla scia della memoria rubata all’attualità. Il Buzzati di «Un sasso è caduto in un bicchiere d’acqua. E l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui» è una macchia. C’è il teatro che rende giustizia al posto dello Stato (e del giornalismo acido).

Condividi