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Cultura

“Woke” e il male diffuso del politically correct

04.04.2024

Il “wokismo” è entrato in crisi perché caotico e fumoso? O siamo noi che non riusciamo più a svincolarci dall’industria mediatica, votata a intenti moraleggianti, ma sempre più vicina al potere politico-economico-finanziario?

La complessità avanza. Temi centrali come le questioni di genere, l’origine etnica o sociale, i consumi, l’ambiente, il ruolo delle donne, sono entrati nel grande frullatore della cultura woke che rischia di tracimare dall’immaginario nella vita reale, diventando un credo fideistico al quale diventa difficile sottrarsi per il timore di essere esclusi da una lista di potenzialità sociali (intrattenimento, lavoro, comunicazione). L’equilibrio instabile tra il riconoscimento delle cause legittime delle minoranze e analoghe posizioni della maggioranza, viene trascinato nel clima di antagonismi ed odio di un dibattito pubblico divisivo che mina i benefici prefissati. Sarà perché dovremmo essere noi a scegliere personaggi e storie svincolandoci dall’industria mediatica sempre più vicina al potere politico-economico-finanziario e votata a intenti moraleggianti, ma il rischio di essere schiacciati da un’azione o idea (anche se meritevole), imposta in nome del politicamente corretto, è patente.

Che tristezza accorgersi che il mondo della fantasia (cfr. Disney ed i suoi eroi addomesticati: dalla fata madrina genderless di Cenerentola alla Biancaneve rivisitata-woke, per copioni trasformati da spettacolari in narrazioni viziate da spettri razzistici ed oscurantisti; risultato: perdite per 900 mln di euro, secondo Bloomberg), il rapporto tra arte e morale ribaltato (“non è più giusto quello che è bello”), il senso frainteso delle marce in difesa dei diritti civili o ambientalismo siano marchiati da un vizio di forma ideologico o propagandistico che sovverte le pur (magari) nobili intenzioni di partenza! Questo si può dire, quest’altro no: è la mordacchia che impone quella che dovrebbe essere una libera scelta, condizionando pensiero ed azione, trasformandosi, alla fine, in bavaglio antidemocratico. E seppur si ammette che la legittimazione delle rivendicazioni razziali, la sorte dei neri, delle donne, degli omosessuali e dei disabili, non avrebbero sortito alcun effetto senza il “veicolo” della protesta (anche) violenta, illuminando l’iter tortuoso delle minoranze (in favore di una civiltà in evoluzione), non si può sottacere la radicalità dei metodi utilizzati, la dilagante ossessione vittimistica e la propensione menzognera che finisce per discreditare artefici e posizioni iniziali. Ma forse il divieto dei crocefissi in alcune classi (per non turbare la sensibilità di chi professa un credo diverso), la “cultura sistemica dello stupro” nei campus americani, l’affermazione che il razzismo è strutturale all’interno dell’istituzione, o i manganelli “proporzionati” alle provocazioni, sono (a mente fredda) da considerare realtà (sgradevoli ma parziali) che non possono essere strumentalizzate a favore di una generalizzazione. Che senso ha abbattere le statue di un passato coloniale, cambiare nomi scomodi alle strade senza accorgersi di svuotare la storia dal suo contesto, cancellandone genesi e segni, soltanto in nome dei rapporti di forze e delle idee del presente? Gli atteggiamenti semplicistici non possono sovvertire la complessità. Le tesi schiavizzate dalle ingiustizie da combattere, dai legacci ossessionanti del politically correct, humus fertile per autocensura potenziale, puritanesimo rampante, all’insegna di discredito delle tesi altrui, attraverso campagne di attivismo (sia online, con i social network, sia offline, con manifestazioni e cortei), sono diventate prassi. Ma i margini di un’informazione obiettiva (verità compresa) si riducono a favore di una contro-ideologia intransigente e negativa. Segno dei nostri tempi ondivaghi. È la cultura woke, bellezza!

 

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