Non c’è pace per gli abitanti di Gaza, non c’è pace per l’ambiente della Palestina. Per un momento era sembrato che la ferita potesse cominciare a rimarginarsi. La tregua mediata da Usa, Paesi arabi e Turchia aveva portato qualche camion di aiuti, i bambini sopravvissuti che giocavano tra le rovine, le famiglie che provavano a riparare le case meno diroccate con quel poco che restava. Ma la quiete è durata poco. Nella notte tra il 28 e il 29 ottobre la Striscia è tornata a tremare sotto le bombe israeliane.
Secondo il ministero della Sanità di Gaza, almeno 104 persone sono morte, tra cui decine di bambini. L’esercito israeliano ha confermato l’attacco, motivandolo come risposta all’uccisione di un suo soldato a Rafah e a presunte violazioni del cessate il fuoco da parte di Hamas, che però nega ogni responsabilità. Le sirene, di nuovo, hanno coperto le voci di chi sperava nella pace.
Il prezzo umano e ambientale di una tregua tradita
La popolazione civile, già allo stremo, torna a vivere nell’incubo. Gli ospedali lavorano senza elettricità né medicine, l’acqua è contaminata, i generi alimentari scarseggiano e l’Onudenuncia la situazione di carestia provocata dal lungo blocco degli aiuti umanitari nella Striscia. La devastazione non si limita alle vite umane: ha devastato – e continua a devastare – la terra, l’acqua, l’aria.
Le infrastrutture idriche e fognarie sono state distrutte o gravemente danneggiate; i liquami scorrono a cielo aperto e contaminano suolo, falde e coste. L’acqua non si può bere, la situazione è al collasso. Le esplosioni hanno compromesso anche il sistema agricolo: più della metà dei terreni coltivabili è stata distrutta o resa inaccessibile, serre e pozzi sono stati spazzati via, gli alberi da frutto sradicati. I campi che un tempo assicuravano parte dell’autosufficienza alimentare di Gaza sono diventati distese di sabbia e macerie.
Sulle coste, le onde restituiscono detriti e carburanti bruciati, mentre nell’aria restano sospese polveri sottili cariche di metalli pesanti. È un avvelenamento silenzioso che non si ferma con la fine dei bombardamenti. Secondo l’Unep, la guerra ha lasciato in eredità oltre 39 milioni di tonnellate di macerie contaminate da sostanze tossiche. L’acqua, la terra, l’aria sono ormai parte del fronte di guerra.
A fronte di oltre cento morti in una sola notte, gli Stati Uniti — garanti della tregua — hanno minimizzato. Il presidente Donald Trump ha definito gli scontri “una scaramuccia” che non mette a rischio il cessate il fuoco, ribadendo che Israele “ha diritto di reagire se attaccato”. Mentre da Tel Aviv l’esercito israeliano ha annunciato che “la calma verrà imposta”.
Israele sostiene di voler garantire la sicurezza dei propri confini; Hamas denuncia la violazione di un accordo già fragile. Di certo per molto tempo la politica di Israele è stata tesa a eliminare l’ala laica del movimento palestinese favorendo l’estremismo religioso musulmano. Poi il governo Netanyahu si è consegnato all’estremismo religioso ebraico. Difficile immaginare che la somma di questi due estremismi portasse alla pace.
Il peso del silenzio europeo
Di fronte a questa situazione l’Europa ha scelto di defilarsi, in bilico tra prudenza diplomatica e impotenza politica. Come se la vicenda non la riguardasse. Gli appelli umanitari si moltiplicano, ma non bastano a fermare la spirale della violenza. Intanto, la crisi ambientale e umanitaria della Striscia minaccia di estendersi ben oltre i suoi confini: la distruzione delle falde e dei suoli, la contaminazione del mare, la perdita dei raccolti rischiano di rendere Gaza inabitabile per generazioni.
