Sulle colline della Cisgiordania, tra i terrazzamenti di Nablus, Ramallah e Hebron, la raccolta delle olive — rito antico e fonte di sostentamento per decine di migliaia di famiglie palestinesi — si è trasformata in un campo di battaglia. Secondo i dati delle Nazioni Unite, le aggressioni dei coloni israeliani contro agricoltori e uliveti palestinesi, spesso con il tacito o esplicito sostegno delle forze armate israeliane, hanno raggiunto questo autunno livelli record. Gli attacchi, mirati a impedire l’accesso ai campi e a distruggere le coltivazioni, si inseriscono in una strategia più ampia di pressione economica e controllo territoriale.
Ottobre e novembre, mesi della raccolta, coincidono con un momento di intensa vulnerabilità. L’ulivo — che copre oltre il 50% dei terreni coltivabili palestinesi e sostiene circa 100.000 famiglie — è insieme risorsa e simbolo identitario: un emblema di sumud, la resilienza radicata nella terra.
L’Ufficio Onu per gli affari umanitari (Ocha) ha registrato, nel solo ottobre 2025, 126 attacchi contro 70 villaggi: il numero più alto dal 2020. Oltre 4.000 alberi sono stati distrutti nel corso dell’anno, portando a 52.300 quelli abbattuti o incendiati dal 2023, circa il 4% del patrimonio complessivo. Il fine, sostengono le Nazioni Unite, è “impedire sistematicamente l’accesso ai terreni, in particolare vicino agli insediamenti illegali israeliani”.
Il controllo dei confini invisibili
La violenza dei coloni si intreccia con un sistema istituzionalizzato di controllo. L’Alto Commissariato Onu per i diritti umani ha denunciato l’“acquiescenza” delle forze israeliane, che spesso intervengono per allontanare gli agricoltori invece di proteggerli.
Una pratica ricorrente è la proclamazione di “zone militari provvisorie”, che di fatto sigillano intere aree agricole durante la raccolta. Volontari internazionali — come l’italiana Martina Stefanelli, arrestata nell’ottobre 2025 insieme ad altri 31 attivisti, come riportato da Il Post — hanno documentato l’uso sistematico di queste interdizioni per bloccare l’accesso ai campi. Dopo l’arresto, 32 volontari stranieri sono stati espulsi con accuse di “sostegno a un’organizzazione terroristica”, un segnale della crescente criminalizzazione della solidarietà civile.
Un’economia al collasso
L’agricoltura, già piegata dalle restrizioni alla mobilità e dal ritiro dei permessi di lavoro in Israele (oltre 200.000 revocati dal 2023), rappresenta ormai l’ultimo baluardo di sussistenza per molte comunità. Ma anche questa fonte vitale è minacciata dalla crisi idrica: ogni modifica a pozzi o impianti richiede un’autorizzazione militare israeliana, raramente concessa.
Il risultato, denuncia il sindacalista WaelNatheef del Palestinian Federation of Trade Unions, è “un lento prosciugamento delle terre e delle comunità”. Dal 1967 Israele controlla ogni intervento idrico in Cisgiordania, e l’impossibilità di mantenere i pozzi aggrava l’erosione economica e sociale delle aree rurali.
Silenziare chi denuncia
Alla pressione sui contadini si affianca un tentativo di contenere le voci critiche all’interno dello stesso apparato israeliano. L’arresto dell’ex procuratrice militare generale YifatTomer-Yerushalmi e del colonnello Matan Solomosh, accusati di aver diffuso un video di abusi su un detenuto palestinese nel carcere di SdeTeiman, rivela un sistema sempre più chiuso e autoriferito. Come riportato da The Times of Israel, la loro incriminazione per “intralcio alla giustizia” segna un punto di frattura: chi tenta di rendere pubbliche le violenze rischia oggi la prigione.
