Mentre il mondo si prepara alla Cop30 in Brasile e Roma al Climate Pride del 15 novembre, Legambiente mette sotto osservazione le città italiane e la loro capacità di difendersi dalla crisi climatica. Il nuovo rapporto “CittàClima – Speciale governance per l’adattamento al clima delle aree urbane”, racconta un Paese che cambia troppo lentamente rispetto alla rapidità con cui mutano le condizioni meteo. Dal 2015 a oggi, nei 136 Comuni italiani sopra i 50 mila abitanti, dove vive quasi un terzo della popolazione nazionale (18,6 milioni di persone), si sono registrati 811 eventi meteorologici estremi. Solo nei primi nove mesi del 2025 se ne contano già 97.
Eppure, meno di quattro città su dieci – appena il 39,7% – hanno adottato un piano o una strategia di adattamento climatico. Il resto naviga a vista, nonostante le piogge torrenziali, le trombe d’aria e le esondazioni siano ormai eventi abituali. Dal 2015 Roma ha collezionato 93 episodi, un primato poco invidiabile che la rende la grande città più colpita, seguita da Milano con 40 casi (di cui 16 esondazioni), Genova con 36, Palermo con 32, Napoli con 20 e Torino con 13.
Italia fragile e senza bussola
Il bilancio è pesante anche per le città di media grandezza, quelle tra 50 e 150 mila abitanti, che concentrano quasi la metà degli eventi registrati (48% del totale). Agrigento, Ancona, Fiumicino, Forlì e Como sono tra le più colpite. Seguono i centri tra 150 mila e 500 mila abitanti, dove spicca Bari con 33 episodi, davanti a Bologna (18), Firenze (14) e Catania (13). Ma l’elenco non dice tutto: dietro i numeri ci sono strade allagate, reti di trasporto in tilt, danni alle infrastrutture e interi quartieri messi in ginocchio da precipitazioni improvvise o ondate di calore record.
Legambiente denuncia le grandi assenze. Due in particolare: il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc), approvato due anni fa e mai davvero attuato, e la legge contro il consumo di suolo, ferma in Parlamento dal 2016. “Il Governo Meloni lavori sulle vere urgenze. Non al Ponte sullo Stretto di Messina ma alla resilienza di città e territori”, è l’appello dell’associazione, che chiede di inserire in legge di bilancio i fondi necessari per rendere operativo il Pnacc e di approvare finalmente una norma che fermi la cementificazione selvaggia.
Ritardi che costano cari
La mancata attuazione del Piano nazionale, con le sue 361 misure previste, rallenta a cascata anche la pianificazione locale. L’Osservatorio nazionale per l’adattamento, che doveva nascere entro il marzo 2024, è rimasto sulla carta. Intanto, ogni mese che passa si traduce in nuove perdite economiche e rischi per la sicurezza dei cittadini.
Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente, avverte: “La crisi climatica in atto e i pesanti impatti a livello ambientale, economico, sociale e sanitario ci ricordano l’urgenza di azioni concrete. In Italia al momento l’unica urgenza sembra essere quella legata al Ponte sullo Stretto di Messina, dimenticando la sicurezza delle persone esposte agli effetti del cambiamento climatico. Oggi occorre, invece, investire in interventi che incrementino la capacità di resilienza delle città in termini di mitigazione e adattamento”.
Per Legambiente, un vero salto di qualità passa da un piano nazionale dedicato alle aree urbane, integrato con quello per le coste, sul modello spagnolo del 2016. Serve bloccare le nuove edificazioni in zone a rischio idrogeologico, riaprire fossi e fiumi tombati, ripristinare la permeabilità dei suoli e favorire i sistemi di drenaggio sostenibile. Ma serve anche un cambio di visione: città che non rincorrono l’emergenza ma progettano il futuro, dove l’innovazione tecnologica, la partecipazione dei cittadini e la pianificazione territoriale diventano gli argini veri contro la tempesta climatica.
