11 Novembre 2025
/ 11.11.2025

Cop30: segnali di schiarita, ma lo scoglio restano i fossili

L'Alleanza dei piccoli Stati insulari (Aosis) chiede di aumentare l'ambizione di riduzione delle emissioni. Ma le resistenze dei Petrostati sono forti

Vedi alla voce mutirão. L’ambasciatore Andrè Correa do Lago, navigato presidente della Cop30 di Belem, ha scovato questo termine per descrivere il suo modo di governare la conferenza. Mutirão è un modo tradizionale di lavorare insieme, che affonda le sue radici nelle culture indigene sudamericane, in cui i membri della comunità si aiutano volontariamente a vicenda per raggiungere un obiettivo comune. E Correa do Lago vorrebbe un mutirão globale. I segnali che arrivano sembrano essere cautamente incoraggianti.

Il primo confronto è stato quello sull’agenda dei lavori, uno scoglio sul quale i delegati delle Copsi sono storicamente scontrati. È andato in scena nella notte tra domenica e lunedì, a poche ore dall’apertura formale della conferenza, ed è finito con una vittoria della presidenza brasiliana, guidata con mano ferma dall’ambasciatore Andrè Correa do Lago, che alle 2 di notte ha sostanzialmente convinto i Paesi più attivi nella difesa del clima a fidarsi.

Quattro richieste

La presidenza brasiliana terrà consultazioni su quattro richieste di discussioni dedicate a temi particolarmente spinosi: finanziamenti da parte dei Paesi ricchi e misure commerciali unilaterali richiesti dal Gruppo like minded (Lmdc) e dal Gruppo arabo; aumento degli obiettivi di riduzione delle emissioni in linea con un limite di riscaldamento di 1,5 °C, richiesto dai piccoli Stati insulari; trasparenza dei dati climatici nazionali, sostenuta dall’Ue. La presidenza terrà anche consultazioni separate sulle “esigenze speciali dell’Africa” e sulle montagne e i cambiamenti climatici, i cui risultati saranno inclusi nella relazione finale della Cop30.

I legami tra cambiamenti climatici e salute, per i quali lo Zimbabwe voleva uno spazio dedicato, saranno invece inseriti nelle discussioni sull’adattamento. Corrêa do Lago ha detto che fornirà un aggiornamento su tali discussioni in occasione di una speciale “seduta plenaria di bilancio” che si terrà domani. L’idea dei brasiliani, non esplicitata, è comprenderli nella dichiarazione finale della presidenza, ma è una strada che non sarà facile percorrere. 

Un dibattito intenso

Il dibattito sull’agenda è stato intenso. Il Gruppo dei Paesi in via di sviluppo con posizioni simili (Lmdc), che comprende Cina, India e Arabia Saudita, con il sostegno del Gruppo arabo composto prevalentemente da nazioni ricche di petrolio, ha presentato proposte che riguardavano temi già ampiamente trattati: finanziamenti per il clima e commercio. In materia di finanziamenti, il blocco vuole discussioni specifiche sull’articolo 9.1 dell’Accordo di Parigi, che stabilisce l’obbligo per i Paesi sviluppati di fornire aiuto finanziario agli sforzi dei Paesi in via di sviluppo per ridurre le emissioni e adattarsi al riscaldamento globale. La loro richiesta che i governi ricchi mettano a disposizione denaro non è una novità.

Ma ora è stata ulteriormente alimentata dalla delusione per l’esito dei negoziati dello scorso anno, che hanno prodotto il nuovo obiettivo di finanziamento del clima delle Nazioni Unite di 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. I Lmdc chiedono ora un “programma di lavoro” triennale per discutere di come la fornitura di denaro da parte dei Paesi sviluppati ai sensi dell’articolo 9.1 sia fondamentale per raggiungere un’ampia gamma di obiettivi dell’accordo di Parigi.

Il blocco vuole inoltre che il vertice affronti la questione delle “misure unilaterali di restrizione del commercio”. Si tratta di un eufemismo per indicare meccanismi come il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere dell’Ue (Cbam), che è essenzialmente una tassa sul carbonio sulle importazioni volta a creare condizioni di parità tra i produttori nazionali e quelli esteri. Ma le economie emergenti, come la Cina e l’India, sostengono che tali misure sono protezionistiche, non tengono conto dei diversi livelli di sviluppo e danneggerebbero le loro economie. Hanno chiesto l’inclusione di questo punto all’ordine del giorno nelle due precedenti Cop, ma finora non sono riuscite a separare l’argomento dalle discussioni esistenti. Da quando ha assunto la presidenza, il Brasile ha cercato di disinnescare una probabile controversia sull’agenda della Cop30 in merito alle misure commerciali. Tuttavia, la precedente proposta di Do Lago di creare un nuovo forum per discutere di clima e commercio al di fuori del regime climatico delle Nazioni Unite ha ricevuto una risposta tiepida.

L’Alleanza dei piccoli Stati insulari

L’Alleanza dei piccoli Stati insulari (Aosis) ha presentato una proposta di discussione su come reagire a tale situazione e aumentare l’ambizione di riduzione delle emissioni. Il gruppo vuole creare un percorso per concordare “azioni concrete di follow-up” volte ad accelerare l’attuazione degli sforzi prima del 2030. Ciò alimenta anche le divisioni esistenti su come la Cop30 dovrebbe rispondere alla grave carenza di ambizione nei piani climatici nazionali aggiornati (Ndc) presentati quest’anno dai Paesi.

“Proponiamo questo punto all’ordine del giorno perché l’attuale traiettoria del mondo verso la catastrofe climatica è inaccettabile dal punto di vista morale, scientifico e giuridico”, ha affermato l’ambasciatrice Ilana Seid, presidente dell’Aosis. “Per le piccole nazioni insulari non si tratta di tattiche negoziali, ma di sopravvivenza”. Da parte sua, l’Ue desidera discussioni dedicate a un meccanismo di trasparenza dell’accordo di Parigi che richieda ai Paesi di comunicare una grande quantità di informazioni a livello nazionale, compresi gli inventari delle emissioni di gas a effetto serra e le misure adottate per attuare le promesse fatte nei loro Ndc.

La finanza climatica

Tema centrale a Cop30 sarà quello della finanza climatica. A Baku fu preso l’impegno di stanziare 300 miliardi entro il 2035, a Belem si cercherà di dare una prospettiva all’obiettivo originario di Baku: 1,3 trilioni dollari. Dai Paesi sviluppati c’è bene poca disponibilità in questo senso, e anzi chi ha operato per mantenere la sua quota dell’impegno dei 300 miliardi è convinto di aver fatto quel che doveva e lo rivendica. È il caso del nostro Paese.  “L’Italia”, ha detto il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, “partecipa alla Conferenza sul clima con ambizione e fiducia: a dieci anni dall’Accordo di Parigi non sono ammessi passi indietro. E l’Italia arriva alla Cop30 con un ruolo da protagonista nella finanza climatica. Un ruolo forte di uno stanziamento complessivo che ha già superato i 3 miliardi, arrivando a 3,44 miliardi, che ci fa salire al quarto posto in Europa, dopo Germania, Francia e Commissione europea. L’Italia ha superato l’obiettivo fissato dal G20: il contributo italiano alla finanza per il clima è passato da 838 milioni di euro nel 2023 a 3,44 miliardi nel 2024”.

Il sottinteso è: manteniamo le promesse, ma non chiedeteci molto altro. E anche sui numeri, alcuni addetti ai lavori hanno da ridire. “L’aumento del 2024″, osservano al think thank climatico Ecco”, compensa un calo del 2023 (-16%) e la media 2023–2024 è +25% sul 2022. Va anche detto chela quota di contributi a fondo perduto si è dimezzata, mentre sono raddoppiati i prestiti e introdotti nuovi strumenti (obbligazioni, riduzione del debito, finanza mobilitata). Ricordiamo poi che i 300 milioni di euro al Green Cimate Fund e i 100 milioni al fondo per perdite e danni, annunciati dalla premier Meloni alla Cop28, non risultano ancora stanziati”.

Ma ognuno guarda al proprio interesse. In primis i Paesi produttori di fonti fossili. Durante il suo discorso di apertura alla Cop30, il presidente brasiliano Lula Inácio Lula da Silva ha affermato che il mondo ha bisogno di una tabella di marcia per “superare” la sua dipendenza dai combustibili fossili. Raggiungere un accordo in tal senso a Belém sarebbe considerato una grande vittoria dai Paesi progressisti e dagli attivisti climatici. Ma il problema è: dove inserirla nelle negoziazioni?

Non si torna indietro

I Paesi presenti alla Cop28 – ragiona il presidente di Cop30, l’ambasciatore Correa do Lago – hanno già concordato di contribuire alla transizione dai combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, anche se, certo, senza stabilire criteri su come ciò debba avvenire in pratica. Ma da qui non si può andare indietro. La verità è che tutti i Paesi produttori di combustibili fossili hanno concordato di abbandonarli, e quindi abbiamo un mandato. Ebbene, parliamone”. Sarà un dialogo tra sordi, e peserà anche l’elefante nella stanza, quel Donald Trump grande campione e sostenitore delle fonti fossili e nemico “della truffa del clima”, che a Belem non ha neppure mandato una delegazione, coerente con la decisione di uscire dall’accordo di Parigi, ma che darà sponda politica ai Petrostati e a quanti vorranno fare muro alle politiche green. 

Ma il Brasile ci proverà: anche per portare avanti la sua grande intuizione, monetizzare in senso positivo il grande patrimonio delle foreste tropicali, incentivando chi le ha a tutelarle. Il fulcro dell’agenda climatica brasiliana è il Tropical Forest Forever Facility, o Tfff. Lanciato con l’obiettivo raccogliere 25 miliardi di dollari dagli Stati sovrani, al quale si sarebbero aggiunti fondi privati per una massa finanziaria complessiva di 125 miliardi di dollari. Il Tfff ha finora raccolto una dichiarazione di supporto da parte di 50 Paesi ma impegni finanziati solo da quattro: Brasile, Indonesia, Norvegia e Francia, che si sono impegnati per 5 miliardi e mezzo di dollari. A loro si uniranno Germania e forse, Gran Bretagna, Cina, Olanda, Canada ed Emirati Arabi Uniti. “Siamo convinti di arrivare a 10 miliardi entro il 2026”, ha detto il ministro delle Finanze brasiliano, Fernando Haddad. Il che non è poco, ma è meno della metà del target.

Il Tfff

Il Tfff non fa parte dell’agenda della conferenza, ma è un tentativo per darle valore, concretezza. In un contesto nel quale i Paesi sviluppati – almeno quelli che non si sono chianti fuori come gli Stati Uniti – sono convinti di aver sostanzialmente fatto già la loro parte e la Cina prosegue con la sua agenda “green ma con giudizio”, è una iniziativa interessante che andrebbe accompagnata, su altri campi: da un’azione concreta su gas come il metano, un potente gas serra, le cui emissioni continuano a crescere nonostante le promesse fatte a Cop28 da molti Paesi, e da una seria e franca discussione sugli Ndc, i contributi volontari di riduzione delle emissioni per il periodo 2030-2035.

Secondo i dati presentati ieri da Simon Stiell, il segretario esecutivo dell’Unfccc, la convenzione sul clima che organizza le Cop, gli 86 Ndc aggiornati, che corrispondono a 113 Paesi (pari al 69% delle emissioni globali) considerando che quello dell’Ue ne conta 27, porteranno a una riduzione delle emissioni del 12% rispetto al 2019. “È un grande risultato”, dice Stiell, “perché per la prima volta stiamo piegando la curva delle emissioni e ogni decimo di grado in meno significa milioni di vite salvate e milioni di dollari in meno di danni climatici. L’accordo dii Parigi sta ottenendo risultati inimmaginabili dieci anni fa, la transizione sta diventando inarrestabile, eppure bisogna fare di più, molto di più. Dobbiamo agire molto, molto più rapidamente sia per ridurre le emissioni che per rafforzare la resilienza. Possiamo e dobbiamo riportare la temperatura a 1,5 °C dopo ogni superamento temporaneo”.

Come ci dicono gli scienziati, servirebbero un taglio del 60% delle emissioni. Ma è improbabile che a Cop30 qualcuno ne chieda conto formalmente ai Paesi. Gli impegni sono e restano volontari e il risultato è che, seppure facendo progressi anche importanti, il mondo va verso un futuro a + 2,5/2,8 gradi, ed è quindi ancora lontano dall’obiettivo.

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