L’11 novembre 2025, la Cop30 a Belém è diventata teatro di uno scontro diretto tra le promesse ambientali internazionali e la frustrazione delle comunità locali. Decine di manifestanti indigeni hanno forzato le barriere di sicurezza del vertice Onu, reclamando accesso ai negoziati e chiedendo azioni concrete per il clima e la protezione delle foreste. L’evento ha rappresentato il culmine di una mobilitazione più ampia, che aveva visto centinaia di persone radunarsi in città già nei giorni precedenti.
Hundreds of people have joined an Indigenous-led protest on the second day of the UN climate summit in the Brazilian city of Belem, highlighting tensions with the Brazilian gov'ts claim that the meeting is open to Indigenous voices https://t.co/gOz3LOAmaK pic.twitter.com/wvjJGtoyse
— Al Jazeera English (@AJEnglish) November 12, 2025
La protesta ha prodotto anche momenti di tensione: i manifestanti hanno esercitato una pressione sugli agenti di vigilanza, che hanno utilizzato tavoli come barricate. Secondo un portavoce Onu, due membri dello staff hanno riportato lievi ferite, e sono stati registrati piccoli danni alla sede.
“La Terra non è in vendita”
Il messaggio degli indigeni era riassunto sui cartelli che esponevano: “La nostra terra non è in vendita”. I leader delle comunità amazzoniche hanno denunciato l’avanzata dell’agroindustria, dei progetti petroliferi, dei minatori e dei taglialegna illegali che minacciano il delicato, e preziosissimo,ecosistema sudamericano.
Nato, leader Tupinamba, ha sintetizzato così la richiesta: “Non possiamo mangiare denaro. Vogliamo che le nostre terre siano libere dall’agroindustria, dalle prospezioni petrolifere, dai minatori illegali e dai taglialegna illegali”. Cacique Gilson, un altro leader Tupinamba, ha definito l’azione una “rivolta, di indignazione”, spiegando che i popoli indigeni sentono “sulla pelle la sconfitta del territorio”.
Queste istanze hanno trovato eco nelle dichiarazioni di RaoniMetuktire (Capo Raoni), che aveva chiesto al Brasile maggiore potere decisionale per i nativi nella gestione dell’Amazzonia, opponendosi ai progetti industriali in corso nella foresta.
After journeying for weeks from a glacier in the Andes to Brazil’s tropical coast, a boat carrying dozens of Indigenous leaders docked in Belem to attend the COP30 climate summit https://t.co/cFzQ31wYCF pic.twitter.com/IkVT77Yt11
— Reuters (@Reuters) November 10, 2025
All’inizio della settimana, decine di leader nativi erano arrivati in barca sul Rio delle Amazzoni per chiedere maggiore influenza sulla gestione delle foreste, iniziativa sostenuta dallo stesso Lula.Nonostante i discorsi sull’inclusione, i partecipanti indigeni denunciano un divario tra retorica e azioni concrete. L’invasione della foresta da parte di diverse industrie continua, anche sotto una presidenza considerata più progressista. Il bacino amazzonico, con circa 340 milioni di tonnellate di carbonio stoccate, è un “pozzo di carbonio” cruciale nella lotta ai cambiamenti climatici. Per questo i popoli indigeni chiedono che i loro territori siano esclusi da attività minerarie ed estrattive.
La voce indigena contro i lobbisti
Leo Cerda, organizzatore della flottiglia Yaku Mama – giunta a Belém dopo 3.000 km di navigazione lungo il Rio delle Amazzoni – ha dichiarato ad Al Jazeera: “I popoli indigeni non proteggono la natura solo per se stessi, ma per l’intera umanità. La maggior parte degli Stati vuole le nostre risorse, ma non i nostri diritti”.
Cerda ha sottolineato l’importanza della presenza indigena alla Cop30, ricordando che anche l’industria dei combustibili fossili partecipa ai vertici sul clima da decenni. Secondo The Guardian, negli ultimi quattro anni circa 5.350 lobbisti del settore hanno preso parte ai summit Onu. Questo dato amplifica il senso di urgenza e l’indignazione dei manifestanti, mentre i negoziati continuano.
