17 Novembre 2025
/ 17.11.2025

Tasse aeroportuali: un green solo di facciata?

Le amministrazioni comunali le presentano come misure sostenibili.  Ma non esiste un documento pubblico che colleghi la tassa al finanziamento di progetti di compensazione delle emissioni, di mobilità sostenibile, di riforestazione o di mitigazione del rumore. L’imposta nasce come ambientale, ma l’ambiente sembra il grande assente nella destinazione finale del denaro

Negli ultimi mesi i costi dei biglietti aerei hanno subito un aumento non indifferente. E no, non è colpa solo dell’inflazione. Una delle componenti che fa la differenza è una voce poco visibile ma impattante: la tassa aeroportuale municipale. Un’imposta, questa, che viene applicata su ogni passeggero in partenza dagli aeroporti italiani e che, nelle intenzioni, dovrebbe contribuire a compensare l’impatto ambientale del volo e a migliorare i servizi aeroportuali. O almeno, questa è la versione ufficiale.

Dietro questa promessa di sostenibilità, infatti, si nascondono molte zone d’ombra. Secondo Ryanair, ad esempio, solo il 5% del gettito complessivo di questa tassa arriva realmente nelle casse degli enti locali. Il resto? Si disperde in rivoli normativi che nulla hanno a che fare con l’ambiente: contributi previdenziali, fondi statali, trasferimenti generici. E oggi non esiste un documento pubblico o un bilancio trasparente che colleghi in modo verificabile la tassa al finanziamento di progetti di compensazione delle emissioni, di mobilità sostenibile, di riforestazione o di mitigazione del rumore. Insomma, la tassa nasce come ambientale, ma l’ambiente sembra il grande assente nella destinazione finale del denaro.

Nel frattempo le compagnie aeree low cost, che basano la propria competitività su volumi elevati e costi ridotti, si trovano a fare i conti con le conseguenze. Fabrizio Francioni, head of communications Italy di Ryanair, non usa giri di parole: “Costi di accesso più alti non possono che determinare una minore capacità competitiva dei singoli aeroporti, e dunque meno investimenti da parte della compagnia”.

Il caso di Fiumicino

Il caso più evidente è quello di Roma Fiumicino: per l’inverno 2025 la compagnia irlandese ha deciso di ridurre la flotta basata nello scalo (un aereo in meno rispetto alla stagione precedente) proprio a causa delle tariffe addizionali considerate troppo elevate. Francioni aggiunge: “Avere tasse e tariffe aeroportuali alte vuol dire meno investimenti, meno capacità, meno connettività. In altri termini, tariffe più alte per i passeggeri”.

La conseguenza è un effetto domino: meno voli significa meno turisti, meno ricavi per il territorio e un impatto negativo sull’occupazione. E a confermarlo non è solo Ryanair: uno studio di Pwc, commissionato da Airlines for Europe, sostiene che l’eliminazione della tassa aeroportuale sui passeggeri in Italia genererebbe un aumento del Pil pari a 1,7 miliardi di euro entro il 2030 e migliaia di nuovi posti di lavoro. Alcune regioni, come per esempio Abruzzo, Calabria, Friuli Venezia-Giulia e parte della Sicilia hanno già scelto di abolire del tutto l’addizionale municipale. Cos’hanno ottenuto? Un rapido incremento dei collegamenti e dei flussi turistici.

La questione chiave

Eppure, mentre dal punto di vista economico il meccanismo è chiaro, resta aperta la questione chiave: l’aumento della tassazione aeroportuale contribuisce davvero a ridurre l’impatto ambientale del trasporto aereo? O si tratta di una forma di greenwashing istituzionale? Da anni, la comunità scientifica concorda su un punto: per ridurre le emissioni servono meno voli brevi, soprattutto quando esistono le alternative ferroviarie. La Francia, ad esempio, ha trasformato questo principio in legge: dove un tragitto può essere percorso in treno in meno di due ore e mezza e c’è una frequenza giornaliera adeguata, i voli equivalenti sono vietati. Non tassati, vietati. È una misura radicale, certo, ma coerente, e ha un obiettivo – ridurre le emissioni del trasporto aereo – e uno strumento efficace: i treni.

In Italia, invece, si è scelta la strada della tassazione senza una politica di mobilità alternativa. Il risultato? Un paradosso: il volo viene tassato, ma se non esiste il treno o la tratta ferroviaria è costosa e poco comoda, l’alternativa può essere abbandonare l’aereo per l’automobile. Uno studio pubblicato su ScienceDirect nel 2024 mostra che aumentare il costo del volo può ridurre il numero di passeggeri, ma non necessariamente diminuire le emissioni totali: se chi rinuncia all’aereo passa all’auto, le emissioni complessive rischiano di aumentare. Dunque, tassare non significa automaticamente orientare in senso ambientale.

A che punto siamo, quindi?

A oggi, non esiste un tracciamento dei fondi che permetta di capire se la tassa aeroportuale municipale italiana abbia finanziato progetti di sostenibilità ambientale: una pista ciclabile per raggiungere l’aeroporto, un investimento in elettrificazione dei mezzi di terra, una riforestazione. La comunicazione parla di ambiente, ma i bilanci non lo dimostrano. E la sensazione è che si stia caricando sulle spalle del viaggiatore il peso della transizione ecologica, senza però costruire un sistema alternativo che permetta di scegliere davvero modalità di trasporto più sostenibili.

Ridurre i voli brevi potrebbe essere davvero la scelta giusta, ma farlo aumentando le tasse senza usare quei fondi per rendere più accessibile il treno rischia di far pagare di più chi viaggia e penalizzare i territori periferici, senza ottenere risultati positivi per il clima. Insomma, fino a quando non verrà introdotto un meccanismo di trasparenza che colleghi ogni euro raccolto a un progetto ambientale misurabile, l’ambientalismo resterà solo un’etichetta su una tassa che, ad oggi, sembra avere più a che fare con la fiscalità che con la sostenibilità.

E a questo punto la domanda è inevitabile: le tasse aeroportuali municipali servono a far volare meno gli aerei o a far volare di più i bilanci dei Comuni?

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