C’è chi alle Cop vede il bicchiere mezzo pieno per principio, un esercizio di ottimismo istituzionale quasi automatico. E poi c’è Volker Türk, Alto Commissario Onu per i diritti umani, che il bicchiere lo vede vuoto, o quasi. L’intervento con cui ha commentato i risultati della Cop30 a Belém è un netto j’accuse.
La conferenza, lo sappiamo, si è chiusa con un accordo minimo e soprattutto con un grande assente: nessun riferimento esplicito alle energie fossili. Un risultato che qualcuno ha voluto leggere come una prova di tenuta del multilateralismo; secondo Türk, è più la conferma dell’opposto, la fotografia di una macchina negoziale che arranca mentre il Pianeta corre verso il baratro.
Il cuore del suo ragionamento è semplice e disturbante: quello che oggi chiamiamo prudenza politica, domani potrebbe essere giudicato come corresponsabilità in un disastro globale. Türk lo dice apertamente, senza la diplomazia che di solito caratterizza le dichiarazioni Onu: la “fatale inazione” dei leader potrebbe un giorno essere considerata “un crimine contro l’umanità” e la risposta inadeguata alla crisi climatica potrebbe configurare un “ecocidio”. Detto da chi rappresenta il massimo organismo internazionale per i diritti umani, non è poco.
Due verdetti
A puntellare l’allarme, Türk cita due decisioni giudiziarie che suonano come un avviso formale ai governi e alle imprese. La Corte internazionale di giustizia ha stabilito che gli Stati devono prevenire qualsiasi grave danno al clima, agendo anche sulla regolazione delle aziende. E la Corte interamericana dei diritti umani ha riconosciuto il diritto umano a un clima stabile, chiedendo agli Stati di imporre alle imprese doveri di diligenza e risarcimenti per i danni climatici. In altre parole: la protezione del clima è diventata un obbligo giuridico.
Non manca il passaggio sui veri vincitori della conferenza: non i Paesi più vulnerabili, non i cittadini che subiscono gli impatti climatici, ma i colossi del fossile. Türk lo dice a chiare lettere: l’industria dei combustibili fossili “genera profitti colossali devastando alcune delle comunità e dei Paesi più poveri del mondo” e deve essere chiamata a rispondere dei danni che provoca. Qui il dito è puntato senza esitazioni sul nesso strutturale tra potere economico e paralisi politica.
Una domanda scomoda
Il senso finale del suo intervento è condensato nella domanda che si pone – e che ci pone – guardando avanti di mezzo secolo: come giudicheranno le future generazioni quello che stiamo (non) facendo oggi? La risposta, se le emissioni continuano a salire e i negoziati a girare in tondo, rischia di essere più dura di qualunque dichiarazione dell’Onu.
