E ora, Santa Marta! Chi troppo tira la corda, e per troppi anni, rischia di provocare una reazione inattesa. Che può innescare un terremoto geopolitico. È il caso dei Paesi produttori di fonti fossili e dei loro alleati che da anni si oppongono alla creazione di una roadmap per l’uscita dai combustibili fossili, iniziativa che fu lanciata nel 2020 e che il Brasile, la Colombia e una novantina di Paesi, tra i quali l’Australia, la Corea del Sud, Il Messico, il Cile, Panama, il Costarica, il Kenya e una ventina di Paesi europei, Italia rigorosamente esclusa, hanno provato a fare approvare alla Cop 30 di Belém.
Il tentativo è finito male, per la incrollabile reazione di petrostati come l’Arabia Saudita e la Russia, ai quali si sono accodati un’ottantina di nazioni produttrici – tra le quali Iran. Iraq, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain, Egitto – e Stati africani e asiatici. Game over, in un contesto come quello Onunel quale vige il principio del consenso. Ma non esistono solo le Nazioni Unite e così la Colombia e l’Olanda convinte che esista un “momentum” – un crescente consenso politico – a favore di interventi decisi contro le fonti fossili, hanno annunciato che il 28 e 29 aprile si terrà, nel porto di Santa Marta, in Colombia, la prima conferenza internazionale per la giusta transizione dalle fonti fossili.
La Colombia è il quinto produttore mondiale di carbone
La scelta di Santa Marta come sede non è per nulla casuale perché Santa Marta è un porto dal quale partono le navi cariche di carbone, materia prima della quale la Colombia è il quinto produttore mondiale. Se noi che ne siamo produttori possiamo avviare un percorso per farne a meno, è il messaggio, anche i Paesi produttori di gas e petrolio possono fare le stesso. Un messaggio forte, anche perché viene da un Paese che ne avrebbe un danno, dall’uscita dal carbone, ma che è convintoche il danno dai cambianti climatici sarebbe comunque maggiore. Lo stessa vale per l’Olanda, produttore di gas naturale.
“Questa Cop”, ha detto a Belém la ministra dell’ambiente di Bogotà, Irene Velez Torres, “non può concludersi senza una chiara, giusta ed equa roadmap per l’eliminazione graduale delle fonti fossili. C’è un consenso crescente tra gli scienziati e tra i cittadini sul fatto che questa sia una priorità, e noi governi abbiamo la responsabilità di farci portavoce della domanda popolare di giustizia climatica e di eliminazione dei combustibili fossili. Per quanto difficile questo discorso possa essere, non poteva finire qui. Dobbiamo mantenere il momentum e lanciare la sfida, guidarla con coraggio e costruire una coalizione di buona volontà”.
“C’è un chiaro momentum“, ha aggiunto la vicepremier olandese Sophie Hermans, “e noi dobbiamo capitalizzarlo, iniziando a immaginare come potrà essere un phase out dai fossili”. A sostenere la dichiarazione di Belem sono stati inizialmente 24 Paesi, tra i quali undici europei (Olanda, Germania, Francia, Spagna, Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Slovenia, Lussemburgo) ma altre adesioni sono fioccate, dall’Australia, grande produttore ed esportatore di carbone e di gas Lng, al Messico, produttore ed esportatore di idrocarburi, dal Regno Unito, alla Cambogia, al Kenya
L’appello di Lula
La roadmap era stata rilanciata in maniera potente a Cop30 dal presidente brasiliano Lula da Silva nel suo intervento al vertice dei leaders, a Belém. “Abbiamo bisogno”, aveva detto, “di una roadmap che consenta all’umanità, in maniera progressiva ed equa, di superare la sua dipendenza dalle fonti fossili, fermare la deforestazione e mobilitare le risorse che saranno necessari per centrare questi obiettivi”. Sembrava un intervento forte e gli osservatori hanno ritenuto che Lula ci avesse messo la faccia perché aveva potenti sostenitori – leggi, la Cina – in grado di aiutarlo a superare le resistenze degli Stati produttori di fonti fossili. Incauti. Era una pia illusione, il Brasile non aveva davvero la Cina dietro: Pechino ha fatto solo un tentativo neppure troppo deciso. E così Lula e il suo negoziatore Correa Do Lago, sono finiti un cul de sac diplomatico e hanno fatto una pessima figura. Ma a volte è dalle sconfitte che matura la voglia di reazione.
Adesso la Colombia rilancia e Corea do Lago, nel suo ultimo intervento alla Cop, ha promesso che da presidente uscente di Cop30 farà il possibile per facilitare le iniziava per dare il via ad una roadmap per l’uscita dai fossili e a una roadmap per invertire il trend della deforestazione. Viste le performance a Cop30 di Correa do Lago, la Colombia farebbe bene a non farci troppo affidamento, ma resta il fatto che il Brasile salirà a bordo, e con lui molti altri Paesi: un conto informale parlava di una novantina sui 194 della convenzione sul clima. Sono numeri importanti, soprattutto per far capire ai Paesi produttori di fonti fossili che non sono necessariamente loro a decidere l’agenda.
Italia, Polonia e Ungheria contro la maggioranza Ue
Si riparte da Santa Marta, Colombia, per tentare di progettare un futuro senza fossili. Molti cercheranno di far fallire il piano: Stati petroliferi, Russia, India e ovviamente Stati Uniti in primis. Teoricamente non c’è partita, ma se l’Europa fosse unita la coalizione alternativa potrebbe giocarsela portando il piano a Cop31, dove la presidenza sarà australiana, quindi di un Paese favorevole alla roadmap. Ma unita l’Europa non lo sarà perché Italia, Polonia, Ungheria sono e resteranno fuori. Le fonti fossili sono dure a morire, anche ideologicamente, e le aziende del settore e i Paesi che le esprimono sono pronte a tutto, anche a bloccare le Cop, pur di non essere messe in discussione. Per loro Santa Marta è solo un’onda anomala. Il loro problema sarà vedere quanto sarà alta. A volte anche gli tsunami accadono, e lo fanno senza che li senti arrivare.
