28 Novembre 2025
/ 28.11.2025

Stazione Spaziale Internazionale: verrà affondata in mare o diventerà una miniera orbitante?

Affondarla costerebbe un miliardo di dollari e si otterrebbe valore zero. Mentre spendendo 300 milioni di dollari più un prestito governativo di pari importo si getterebbero le basi per sviluppare l’economia circolare nello Spazio 

Spendere un miliardo per buttare in fondo al mare un vero e proprio tesoro. È questo il piano attualmente messo a punto per la gloriosa Iss, la Stazione Spaziale Internazionale in orbita intorno alla Terra: guidarla in un tuffo controllato nell’oceano Pacifico entro il 2030. Eppure lassù ci sono 430 tonnellate di preziosissimo materiale di prima qualità — alluminio, titanio e materiali testati per operare nello spazio — un patrimonio da oltre 1,5 miliardi di dollari già dove serve: in orbita, dove è stato spedito nel corso di quasi trent’anni con un numero innumerevole di lanci e con grandissima spesa. Perché distruggerlo, quando in questo modo si potrebbe al contrario inaugurare la prima vera economia circolare dello spazio?

La Stazione Spaziale Internazionale è un laboratorio orbitante grande come un campo da calcio, in orbita bassa terrestre a un po’ meno di 400 chilometri di distanza dalla Terra. Il primo modulo (Zarya) è stato lanciato nel lontanissimo 1998; la presenza umana a bordo è continua dal novembre 2000. È un progetto congiunto di Nasa, Roscosmos (Russia), Esa (Europa), Jaxa (Giappone) e Csa (Canada). Per assemblarla e rifornirla sono stati necessari letteralmente decenni di missioni: decine di voli dello Space Shuttle (oltre 35 dedicati) e più di 100 lanci complessivi tra moduli, cargo Progress/Htv/Cygnus/Atv e capsule con equipaggio (Soyuz, Crew Dragon). 

I record ottenuti finora

Ci hanno vissuto e lavorato a bordo oltre 270 astronauti e cosmonauti da più di 20 Paesi, con il soggiorno continuo più lungo di ben 371 giorni (Frank Rubio, 2022–2023), mentre per tempo totale in orbita il russo Oleg Kononenko ha superato in più missioni i 1.000 giorni cumulativi. La ISS è stata fondamentale proprio per “abitare” lo spazio, e capire come affrontare i mille problemi dell’attività umana in microgravità. Ovviamente poi lassù sono stati condotti migliaia di esperimenti in biologia, medicina, fisica dei materiali, fluidi, osservazione della Terra e dimostrazioni tecnologiche (riciclo acqua/aria, robotica, rientri, stampa 3D), abilitando anche lo sviluppo dei voli commerciali con equipaggio. 

Purtroppo però nulla è eterno, a maggior ragione una macchina costruita dall’uomo che ha, in alcune parti, anche trent’anni di vita. Molte aree di hardware sono invecchiate superando di gran lunga la vita di progetto, cresce il rischio di guasti e micro-impatti, aumentano in modo sensibile i costi operativi. Si può continuare a usare la Stazione? In teoria, sì: si potrebbero estendere alcune funzioni o riconvertire parti, ma senza investimenti significativi per manutenzione, aggiornamenti e gestione dei rischi la sostenibilità tecnica ed economica oltre il 2030 diventa via via meno giustificabile. Da qui l’idea di immaginare un piano di rientro controllato in mare, con la Nasa che ha incaricato SpaceX di sviluppare un veicolo di deorbit (Usdv) per un rientro controllato verso il “Point Nemo” nel Pacifico all’inizio del prossimo decennio.

Una soluzione alternativa

Detto questo, sicuramente dispiace buttare letteralmente in mare (e in parte bruciare in atmosfera) il più grande manufatto umano mai costruito in orbita, spendendo per giunta un altro miliardo di dollari per realizzare quest’impresa. E c’è chi sta proponendo una soluzione alternativa che potrebbe rivoluzionare l’economia spaziale. “Stiamo parlando di 430 tonnellate di materiali pregiati – alluminio, titanio e altre leghe – che varrebbero oltre 1,5 miliardi di dollari se mantenuti in orbita”, spiega Greg Vialle, fondatore di Lunexus Space e promotore del movimento “Recycle the ISS”. “Sul fondo dell’oceano, invece, non varranno nulla”.

La proposta di Vialle è semplice e rivoluzionaria: invece di spendere un miliardo di dollari per distruggere la stazione, perché non investire 300 milioni per sviluppare le tecnologie necessarie a riciclarla? Un approccio che non solo preserverebbe un asset prezioso, ma getterebbe le basi per una nuova industria spaziale americana, garantendo la leadership economica e strategica sugli altri competitor globali, Cina in primis.

L’urgenza di questa decisione è dettata non solo dalla scadenza del 2030, ma anche dalla crescente congestione dell’orbita terrestre bassa. Con l’espansione esponenziale dell’industria satellitare commerciale, lo spazio attorno alla Terra sta diventando sempre più affollato, aumentando i rischi per i futuri voli spaziali e i costi operativi per il settore.

Un hub automatizzato

La visione di Vialle va oltre il semplice risparmio economico. La sua proposta prevede di trasformare la Iss in un hub logistico e manifatturiero automatizzato, eliminando i 3 miliardi di dollari di spese operative annuali che la Nasa sostiene attualmente per l’equipaggio e la manutenzione. Le tecnologie sviluppate per questo progetto potrebbero poi essere applicate per affrontare il più ampio problema dei detriti spaziali, creando quella che Vialle chiama una “economia circolare dello spazio”.

L’analisi costi-benefici lascia poco spazio ai dubbi. Il piano attuale della NASA prevede un investimento di un miliardo di dollari, mentre quello di riciclo costerebbe 300 milioni più un prestito governativo di pari importo per il lancio delle infrastrutture necessarie. Il ritorno economico previsto passerebbe da un modesto 100% in 5-10 anni a oltre il 1000% nello stesso periodo.

“Come possiamo aspettarci di estrarre e raffinare asteroidi di composizione sconosciuta nello spazio profondo se non riusciamo a sfruttare le tonnellate di materiali spaziali già catalogati e tracciati in orbita bassa?”, si chiede retoricamente Vialle. Una domanda che risuona ancora più forte considerando che ogni chilogrammo di materiale lanciato nello spazio costa almeno 3.500 dollari.

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