Tre tornate di chiarimenti, scambi serrati con Bruxelles, montagne di documentazione. Eppure non è bastato: il 29 ottobre la Corte dei Conti ha negato il visto alla delibera Cipess sul Ponte sullo Stretto. Ieri sono arrivate le motivazioni, che colpiscono l’opera su più fronti e sollevano interrogativi sulla tenuta giuridica dell’intero progetto.
Il nodo ambientale
Il primo affondo dei magistrati contabili riguarda la direttiva Habitat. Il governo aveva tentato di aggirare i vincoli ambientali utilizzando la procedura Iropi (motivi imperativi di rilevante interesse pubblico), definendo l’opera strategica anche in chiave militare-Nato. Ma secondo la Corte mancano elementi essenziali: “Non è stato prodotto altro atto istruttorio oltre la relazione medesima, peraltro mancante di qualsiasi elemento identificativo quali data e sottoscrizione”. Peggio ancora: “Né maggiori e più circostanziate valutazioni sull’assenza di soluzioni alternative alla costruzione del Ponte sono rinvenibili nella stessa relazione Iropi”.
La Commissione europea, sottolinea la delibera, ha acceso “più di un faro” sul tentativo italiano di derogare alle norme ambientali. La nota del 15 settembre della Direzione generale Environment evidenzia “l’esigenza di un confronto” per garantire il rispetto del diritto Ue, con richiesta esplicita di chiarimenti prima di “granting development consent or initiating works” (rilascio del permesso di costruzione/sviluppo o avvio dei lavori).
Il rebus degli appalti
Ma il centro della bocciatura sta altrove: nel costo dell’opera e nell’iter procedurale. Il governo ha scelto di non bandire una nuova gara, riattivando quella del 2003 vinta da Eurolink. Problema: quella gara era stata indetta a condizioni completamente diverse. Nel 2003 il costo gravava in gran parte sul privato, oggi tutto sulle spalle dello Stato per 13,5 miliardi. Per la Corte questo lede la concorrenza e viola le norme europee che fissano al 50% il tetto di costi aggiuntivi accollabili a una vecchia gara: “Risultano verificate condizioni che avrebbero attratto ulteriori partecipanti alla procedura”.
Il Collegio è netto: “Ogni valutazione sul rispetto del vincolo del 50% risulta, allo stato, condizionata dall’incerta definizione dei costi dell’opera”. Tradotto: i costi sono “in parte meramente stimati”, il che impedisce di verificare se il tetto europeo sia stato rispettato.
Terzo punto critico: l’esclusione dell’Autorità di regolazione dei trasporti dall’esame del piano tariffario. Una scelta contestata dalla Corte che rileva la violazione degli articoli 43 e 37 del decreto-legge 201/2011. Anche il Consiglio superiore dei lavori pubblici è rimasto fuori dall’iter, nonostante avesse chiesto nel 1997 di esaminare il progetto esecutivo.
La reazione del governo è stata immediata ma cauta. Il Ministero delle Infrastrutture parla di “positiva collaborazione con la Commissione europea” e annuncia: “Tecnici e giuristi sono già al lavoro per superare tutti i rilievi”. Palazzo Chigi si dice convinta che si tratti “di profili con un ampio margine di chiarimento” in un “confronto costruttivo” con la Corte. Toni diversi rispetto alle accuse di “intimidazione” e “atto politico” lanciate a caldo da Salvini e Meloni dopo la bocciatura di ottobre.
La partita ora si gioca sul terreno tecnico-giuridico. La Corte ha formulato anche osservazioni su ulteriori profili “non decisivi” ma confermati: un elenco di criticità che complica il quadro. Resta l’interrogativo: l’opera potrà ripartire sanando le violazioni, o servirà davvero una nuova gara? La risposta dipenderà dalla capacità del governo di dimostrare che le modifiche al contratto del 2003 restano entro i margini di legge. Una sfida complessa, con Bruxelles che osserva e l’Europa che chiede garanzie.
