La generazione cresciuta tra deadline infinite, notifiche che ci raggiungono ogni minuto e un futuro che spesso sembra un quiz a premi senza istruzioni, ha sviluppato un talento involontario: convivere con un livello di stress diventato quasi fisiologico. Non è solo stanchezza, ma una sorta di spaesamento permanente che lascia poco spazio al gioco, alla divagazione, alle domande lente.
La via d’uscita non arriva dai nuovi intrattenimenti sempre più rumorosi e competitivi: al contrario, la bussola punta verso universi narrativi che fanno esattamente il contrario. Universi che rallentano. Che respirano. Che concedono tregua. Quelli firmati dallo Studio Ghibli.


Lo raccontano i risultati di una ricerca dell’Imperial College di Londra, che ha messo alla prova più di cinquecento studenti post-laurea, chiedendo loro di immergersi per qualche minuto in film come Il mio vicino Totoro e Kiki – Consegne a domicilio, oppure in sessioni di gioco open-world. Il risultato è stato sorprendente solo per chi non ha mai osservato un bambino incantarsi davanti a un soffio di vento: chi aveva guardato gli estratti Ghibli mostrava un aumento netto di calma, curiosità e senso di soddisfazione, come se quei piccoli frammenti di mondo avessero riallineato qualcosa di interiore rimasto fuori asse.
A funzionare non è una nostalgia zuccherosa, ma una nostalgia più viva e concreta, che riporta a una dimensione in cui le giornate hanno tempo per i dettagli: un pasto preparato insieme, un sentiero che non porta da nessuna parte, un cielo che cambia colore senza fretta. Le storie di Miyazaki (e soci) sembrano ricordarci che la meraviglia non è un evento speciale, ma un’abitudine che si atrofizza quando la vita accelera troppo. Lo spettatore, di colpo, si trova dentro scenari in cui la natura non è sfondo, ma presenza. Un alleato silenzioso che stabilizza, radica, consola.
Questa serenità non nasce dall’assenza di conflitti. Le opere Ghibli non evitano la fatica emotiva: la malattia della madre in Totoro, lo smarrimento e il burnout di Kiki, il viaggio interiore di Chihiro nel treno sospeso sull’acqua. Sono storie che ammettono la fragilità senza spettacolarizzarla. Offrono ai personaggi pause, gesti minimi, sguardi che sedimentano l’esperienza invece di travolgerla. È in quelle intercapedini narrative che lo spettatore respira, ritrovando un ritmo più umano.
Quando a questo tipo di sguardo si affiancano giochi open-world come Breath of the Wild, che premiano l’esplorazione libera e la creatività più spontanea, l’effetto si amplifica. Non perché ci sia un messaggio profondo da decifrare, ma perché entrambi i mondi – il cinema poetico di Ghibli e la libertà ludica dei paesaggi digitali – offrono la stessa cosa: la possibilità di vagare. Di provare, sbagliare, tornare indietro. Di riscoprire un senso di direzione senza la pretesa di un traguardo.
Queste narrazioni suggeriscono che la felicità assomiglia più a un cammino che a un obiettivo. A una forma di attenzione, di cura, persino di tenerezza verso il proprio tempo interiore. Non c’è bisogno di epiche imprese: basta un bosco dove soffia il vento, una scopa che non vola benissimo, una bambina che osserva il mondo dal finestrino di un treno. La vera avventura, forse, è ritrovare un passo che somigli al nostro.
