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Esteri

I media hanno più fretta di Israele di attaccare Gaza

22.10.2023

Guerra a prova di nervi è diventata quella di Israele contro Hamas. Un gioco di scacchi, dove ogni mossa porta delle fatali conseguenze. Un attacco immediato lo vogliono tutti, meno Israele, che cerca in tutti i modi di non cadere nella trappola dei media e delle dichiarazioni per salvare gli ostaggi. Ogni momento che passa ha il suo significato e ripota delle precise conseguenze.

Anche oggi, Israele non ha invaso Gaza. Da quando i terroristi palestinesi hanno massacrato il maggior numero di ebrei in un sol giorno dalla fine della Seconda guerra mondiale, ogni giorno la stampa ha dato per imminente l’ingresso dell’esercito israeliano nel territorio controllato da Hamas. È un‘aspettativa naturale, anche perché alimentata da prese di posizione ufficiali di Israele, ma smentita da una risposta che continua a essere affidata all’aviazione, mentre i carri armati restano sul confine.

Il ritardo è dovuto in parte ai tempi di mobilitazione delle riserve, ma in realtà Israele non ha molta voglia di entrare in forze in un territorio urbano, nel quale ogni finestra nasconde un miliziano pronto a sparare con un kalashnikov o un lanciarazzi. Meglio brevi incursioni delle forze speciali, che sfruttano la superiorità informativa per colpire e subito dopo ritirarsi.
Non attaccare ha dato spazio alla diplomazia più o meno segreta. Il rilascio di due ostaggi israelo-americani il 20 ottobre ne è il primo frutto, grazie alla mediazione del Qatar, che fra gli stati mediorientali è il più vicino a Hamas.

Un altro aspetto visibile dello sforzo per portare le parti al tavolo è stato il frenetico viaggio del segretario di Stato americano Antony Blinken, importante segno dello sforzo profuso dagli Stati Uniti nella soluzione della crisi.
Il progresso nelle trattative è stato però vanificato dalla crisi dell’ospedale di Gaza, che ha consentito a Hamas di invertire la narrazione per presentarsi come vittima di Israele anziché come carnefice. La fretta dei media nel riproporre, senza alcuna verifica, l’inverosimile cifra di 500 morti (oggi ridotta a più plausibili 10-50 vittime) e soprattutto l’attribuzione a una bomba israeliana anziché a un razzo di Hamas andato fuori bersaglio ha favorito Hamas. Prima che la verità emergesse, Giordania ed Egitto avevano annullato i previsti incontri con Joe Biden. Per lo stesso motivo, gli USA hanno saltato il vertice del Cairo.

Alimentata dall’indignazione per l’ospedale, da Roma a Londra, da Washington a Parigi la narrativa di Hamas si è tradotta in manifestazioni dal forte sapore antisemita e in gesti che generano forti preoccupazioni di ordine pubblico, alimentando in modo perverso la polarizzazione del discorso pubblico, riducendo lo spazio per una trattativa che non si riduca a generici appelli di buona volontà.
A più di due settimane dalla strage, il fattore tempo è sempre più critico. Israele deve bilanciare l’affievolirsi dello sdegno con la speranza del rilascio degli ostaggi, chiesto a gran voce al proprio interno. La legittimazione internazionale al contrattacco, così evidente all’indomani della strage dei propri cittadini, potrebbe presto tradursi in disapprovazione, anche per effetto della mobilitazione dei segmenti antiebraici della cittadinanza. D’altronde, la rinuncia alla minaccia militare diminuirebbe l’urgenza per Hamas di sedersi al tavolo delle trattative, magari rilasciando gli ostaggi come segno di buona volontà.

In questo gioco, non bisogna cedere agli analisti militari o geopolitici più o meno improvvisati, ma restare incollati ai fatti, facendo la tara alle opposte propagande. Ogni ora che passa rende meno probabile l’occupazione di Gaza nord, da cui Israele si ritirò 18 anni fa.

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