24.12.2023
Scritta nel 1698 come rappresentazione liturgica dall’abate Andrea Perrucci, che da gesuitica si colorò di blasfemia tanto da essere proibita nell’800, diventa maestria artistica di Peppe Barra che trasforma “un presepe in movimento” in icona della cultura teatrale napoletana, celebrata dall’Unesco come patrimonio immateriale dell’umanità.
La Napoli degli incantesimi. È come se a un certo punto, schivando frotte di turisti, alcuni pastori da San Gregorio Armeno, la via dei presepi, raggiungessero, allo sbocco di Forcella e in prossimità di Castelcapuano e dei decumani, il Teatro Trianon Viviani, abitato dai fantasmi degli Scarpetta, dei De Filippo, Totò, Taranto, Maggio, Sergio Bruni, e salissero su quel palco per vestire i panni di un gustoso pasticcio di sentimento religioso e teatro comico.
Ecco, il miracolo della Cantata dei pastori che, come rete a strascico, raccoglie pezzi dei Vangeli apocrifi, tradizioni popolari del sud, nell’intreccio tra sacro, magico e profano paganeggiante per raccontare il viaggio di Maria e Giuseppe verso Betlemme e delle insidie che i Diavoli frappongono loro per impedire la nascita di Gesù. Scritta nel 1698 dall’abate Andrea Perrucci, come rappresentazione liturgica, che da gesuitica si colorò di blasfemia tanto da essere proibita nell’’800, e rappresentata solo di nascosto nelle sacrestie o nei teatri polari, fu riscoperta dal maestro Roberto De Simone e dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare (1974), recuperandone suoni, fino al canto finale sacro di Quanno nascette ninno, composto da S.Alfonso Maria de’Liguori (1758).
Peppe Barra, da quasi 50 anni custode di quella che è ormai rituale riproposizione, incarna Razzullo in abiti settecenteschi, capitato in Palestina per il censimento voluto dall’Imperatore romano, nel serrato confronto con uno squinternato barbiere, Sarchiapone, in fuga per crimini commessi (un’irresistibile Lalla Esposito, dalla voce argentata), proprio mentre la sacra famiglia è in cerca di un alloggio. E, d’incanto, l’aura dell’immaginazione s’impossessa di scene dipinte per l’adorazione dei classici personaggi del presepe, pastori, cacciatori e pescatori, con i due sventurati accomunati da fame atavica che fronteggiano una turba di diavoli intenzionati ad ostacolare la Natività, salvo poi essere ricacciati negli inferi anche grazie all’arcangelo Gabriele.
Un dramma sacro che per singolare ossimoro, nato con scrupolo filologico per un tipo di teatro nella Controriforma cattolica ha raccolto riti, simboli e quotidianità (anche fiabesca), trasformandosi, poi, nell’opposto contro peccato e volgarità, dentro il fluire di un imperscrutabile dialetto napoletano (‘700) inframmezzato da comicità, gag, lazzi e doppi sensi tipici della Commedia dell’Arte sino al varietà. Contro ogni realismo da cartolina (Lamberto Lambertini, regista), attinge prodigiosamente al serbatoio d’una teatralità antica, corroborata da estro e presenza scenica di un iconico Barra, che dal lignaggio nobile di Concetta (la madre) trae linfa vitale, innervando il dialogo serrato con Sarchiapone e i siparietti con il maestro delle musiche Giorgio Mellone. Tra i vicoli (con problemi endemici) che dall’ombra si affacciano su strade vocianti, fasciate di luce d’euforia immotivata (?), si materializza l’anima sfuggente di una città, abituata alle entrate e alle uscite di scena, fuori e dentro il tempo.
La Cantata dei pastori, nella sua disarmante semplicità, suggerisce di reinventarsi in forme nuove, ancorate, sì, a una tradizione ineludibile, ma incapace di proteggere da problemi ed angosce del presente, mascherandosi nel presepe di Perrucci o nella magia sarcastica di Casa Cupiello, quando Luca guida il corteo domestico dei regali verso l’armonia familiare perduta. La redenzione continui a essere fiaba della luce vittoriosa sull’ombra: il Natale è tutto qui.
La Cantata dei pastori sarà in scena al Teartro Trianon Viviani (diretto da Marisa Laurito), zona Forcella, dal 22 al 30 dicembre prossimo.