02.01.2024
Matura la sconfitta politica interna di Bibi Netanyahu, ma tutto in sospeso nell’attesa della fine delle operazioni belliche nella striscia di Gaza. La Corte Suprema israeliana boccia la controversa norma con la quale Netanyahu voleva limitarne il potere di revisione delle leggi.
Cambierà qualcosa nelle operazioni a Gaza dopo la sentenza della Corte Suprema israeliana, che ha bocciato la controversa norma con la quale Netanyahu voleva limitarne il potere di revisione delle leggi? La risposta è no. L’emergenza creata dal sanguinoso attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre ha compattato Paese e governo in nome della sicurezza nazionale. Il ritiro di alcune migliaia di soldati dalla Striscia, in corso in queste ore, è frutto delle pressioni degli USA e della necessità di ridare fiato all’economia, penalizzata dal la mancanza di lavoratori a causa del massiccio richiamo di riservisti.
Sbaglierebbe, però, chi pensasse che in Israele non cambi nulla. Nella particolare architettura dello Stato ebraico, retto non da una Costituzione organica, ma da alcune Leggi Fondamentali stratificate nel tempo, la decisione più importante sta nell’amplissima maggioranza con la quale la Corte Suprema ha affermato la propria giurisdizione sulle Leggi Fondamentali. Rivendicando 12-3 questo diritto, che il governo negava, la Corte ha evitato di creare uno spazio giuridico sottratto al sindacato di costituzionalità. La portata della decisione si avvicina a quella di Marbury contro Madison, che stabilendo nel 1803 che “una legge contraria alla Costituzione è nulla” diede concreta attuazione alla separazione dei poteri.
Per dirla chiaramente: dopo questa decisione, nessuno potrà tentare di cambiare il sistema – in qualsiasi direzione, ovviamente – senza controllo di costituzionalità. Israele evita così le derive plebiscitarie sempre in agguato in ogni democrazia. Più concretamente, la Corte era chiamata a esprimersi sull’abolizione del “principio di ragionevolezza” che le consentiva di intervenire direttamente su qualsiasi provvedimento del governo. Un potere amplissimo, assente dalla Legge Fondamentale per i primi 60 anni dello Stato ebraico: è stato introdotto, infatti, solo nel 2017. Proprio la vaghezza del concetto di “ragionevolezza” lo rende sospetto anche ad alcuni moderati, che temono potenziali abusi futuri.
A rendere la ragionevolezza indigesta a Netanyahu era stata la decisione di usarla per bloccare la nomina a ministro dell’ultraortodosso (e dunque ultraconservatore) Aryeh Deri, scelto per puntellare la propria fragilissima maggioranza. Su questo punto cruciale, la Corte si è spaccata 8-7, che alcuni leggono come una sconfitta 6-7 considerato che il mandato della presidente e di un altro membro progressista sono scaduti a ottobre. A prescindere dalla loro sostituzione, se la Corte dovesse decidere su un caso analogo (poniamo in aprile), l’esito potrebbe essere opposto. Tanto più che Netanyahu ha già promesso di ripresentare la norma.
In conclusione, la sconfitta politica interna c’è tutta, soprattutto perché la destra aveva chiesto di congelare l’annuncio della sentenza – peraltro anticipata giorni addietro da una stazione televisiva privata – fino al termine della guerra contro Hamas. D’altra parte, le reiterate dichiarazioni governative di andare avanti per molti mesi facevano temere che in quel tempo Netanyahu – grande tattico, pessimo stratega – trovasse il modo di far sì che la Corte se la rimangiasse. Per ora la democrazia ha battuto la demagogia. Ma solo ai tempi supplementari.