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Spettacolo

Il valore televisivo di un tempo

04.01.2024

Vito Molinari, 92 anni, nella sua casa in Liguria

«Nessuno vuole più le idee perché generano paura, non solo politicamente, socialmente, ma commercialmente. A comandare sono i pubblicitari». Intervista a Vito Molinari, curatore della prima trasmissione televisiva (il 3 gennaio 1954), un unicum con le sue duemila regie.

Con tenacia e quello humour all’Achille Campanile e Marcello Marchesi (i maestri), ha raccolto i “semi del merito e delle regole”, li ha metabolizzati, zigzagando, dietro le telecamere, tra inquadrature, scalette, ampex, croma key, dolly, come fosse una “sardina” nella scatola magica della televisione, diventando una sorta di Bibbia catodica, eppoi, sulle assi del palcoscenico, tra operette, commedie musicali e prosa, per dar forma alla nozione stessa di “regia”. Si presenta così Vito Molinari (oltre la soglia delle 90 primavere) regista, perché esserlo è un piacere, un gioco, molto serio. All’insegna d’ironia intelligente e garbata.

Chissà se i peli della sua barbetta mefistofelica saranno duemila, tanti quanti le trasmissioni televisive dirette (diconsi 2000 trasmissioni). Si schermisce: «Non so come sia riuscito a fare tante cose, specie in tv senza aiuti, padrini. Ero di livello medio, ma gli altri erano peggio. Quindi…». 3 gennaio 1954: una data da ricordare. Alle 14.30, andò in onda Arrivi e Partenze. E Molinari era lì.

Con la sua passione per il teatro, gli studi giurisprudenziali, i fermenti di giovane ligure trasferitosi per “capire quella scatoletta con dentro delle immagini” in una Milano non ancora da bere, ma vogliosa di fare. Sua, la regia della trasmissione inaugurale della Rai. «Noo, con quel naso non può stare davanti a una telecamera a chiacchierare (il presentatore non era ancora nato). Lei è bravissimo a fare il regista!», aveva sentenziato Sergio Pugliese, il direttore dei programmi di Corso Sempione (di ritorno dagli Stati Uniti ad imparare il nuovo medium), memore del successo universitario del nostro: i «Processi celebri dell’antichità», Eratostene, Lisia, Cicerone. «Lui non volle quelli della radio, sennò – diceva – me la rifanno qui. Niente da fare anche con i cinematografari: con le cifre che guadagnavano, preferivano il grande schermo alle immagini ballonzolanti prossime a morire. Avanti, dunque, coi giovani del teatro».

 Ma avevate la percezione di aver qualcosa di speciale tra le mani?
«No, solo l’entusiasmo di poter fare delle cose strane. Certo, non la sensazione di scrivere la storia. La cronaca, sì. Con Lascia o raddoppia?, quando l’Italia si bloccò nelle case, nei bar, si capì l’importanza della macchinetta, per cambiare la Nazione a livello di informazione, conoscenza e cultura». Trasmissioni di successo in serie.

 Poi venne Canzonissima, quella del 62, con Dario Fo, Franca Rame e la censura storica.
«Ma bisogna proprio fare ‘ste canzoni? Mi ripeteva spesso Fo, con il quale firmavo il programma insieme a Leo Chiosso. Discussioni, fino a quella settimana con due morti bianche e allo sketch dell’edile senza rete. Ma guarda che è una gara canora, gli dicevo. Lui tirava, invece, a fare il comizio, senza mediazioni. La censura Rai si oppose e ritirammo il copione. Interpellanze parlamentari. L’allontanamento: per Fo e Rame iniziò l’esilio».
«L’attuale è una tv (volgarissima) antiregia: programmi-contenitore, nei quali ideatori, registi di se stessi sono loro. Gli autori non esistono. Nessuno vuole più le idee perché generano paura, non solo politicamente, socialmente, ma commercialmente. A comandare sono i pubblicitari». Nessuna nostalgia per il monopolio Rai, ad alto condizionamento politico. Meglio i tempi con i Macario, i Bramieri, i Pisu, la Del Frate (L’amico del giaguaro), Tognazzi e Vianello (Un due e tre). L’ultimo superstite del galantonismo televisivo, non si arrende. Consigli dalla regia: ritorniamo al gusto e alle idee. Firmato: Vito Molinari.

Credito fotografico: Enrico Cortelezzi per il Segno.

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