18.01.2024
È in corso, e durerà a lungo il processo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia a L’Aja, intentato dal Sudafrica contro Israele, accusata di genocidio. Bisogna intanto chiarire che la Corte Internazionale di Giustizia è un organo delle Nazioni Unite, chiamato a risolvere controversie tra gli Stati. Cioè, una cosa molto diversa dalla Corte Penale Internazionale, il cui compito è giudicare non Stati singoli, ma individui, (negli anni più recenti crimini commessi in Africa, in Georgia, e adesso in Ucraina, con l’incriminazione di Vladimir Putin). La Corte Internazionale di Giustizia, invece, non può mandare nessuno in carcere: “imputati” sono gli Stati, e quello che è in gioco è la loro reputazione, la loro immagine. C’è, ovviamente, qualcosa di paradossale nel vedere Israele, che è nata anche con i sopravvissuti a un genocidio, imputata di un reato che venne definito la prima volta – il termine fu coniato da un avvocato ebreo polacco – al processo di Norimberga, che vedeva alla sbarra i nazisti.
Tutti abbiamo assistito all’insopportabile numero di vittime civili causato dalla risposta di Israele all’orrore del 7 ottobre. Ma può un tribunale, e non lo studio di un talk show, non lo slogan di una piazza, definirlo genocidio? Perché si abbia “genocidio” ci vuole la volontà manifesta, tradotta in atti sistematici, di cancellare un popolo. E non bastano le dichiarazioni di alcuni esponenti del governo e della destra israeliana, da cui traspare il cupo desiderio di vedere i palestinesi abbandonare Gaza, far posto ai coloni in Cisgiordania, andarsene in Giordania e in Egitto, visto che la Palestina non esiste e non deve esistere, secondo loro (un atteggiamento speculare, anche se più verbale che altro, a quello di Hamas, contrario alla soluzione dei due Stati). Ci sono i volantini per avvisare la popolazione a sgomberare quartieri che stanno per essere bombardati.
C’è il permesso all’ingresso di aiuti umanitari. C’è la dichiarata volontà di colpire solo i miliziani di Hamas e i loro vertici: un programma attuato con noncuranza, solo in parte giustificata dall’utilizzo dei civili come scudo umano da parte di Hamas. Per Israele i danni collaterali erano un prezzo da pagare, vite che valevano di meno, sacrificate alla caccia grossa. Per Hamas, le vittime civili erano utili a isolare Israele, a rallentare e fermare la sua offensiva. Difficile, nel linguaggio di un tribunale, configurare in questo un genocidio. Abbiamo pensato spesso: quella di Israele sta diventando una risposta sproporzionata. Ma qual era la proporzione giusta?
Quante vittime civili è costata, in Iraq e Afghanistan, la reazione all’11 di settembre? La storia riconosce a fatica i genocidi, oltre a quello subito dagli ebrei. Quello armeno, è vietato parlarne nella Turchia di Erdogan, grande protettore di Hamas. Il Tribunale Internazionale di Arusha, chiamato a giudicare il genocidio dei Tutsi, in Ruanda, pur riconoscendolo tale, ha condannato, sei anni dopo, due colonnelli e un maggiore, e steso un velo pietoso sul silenzio delle Nazioni Unite, sull’acquiescenza di Paesi europei come la Francia, sull’immobilità degli Stati Uniti. Il termine “genocidio” è tornato in un’aula di tribunale con lo sterminio, a Srebrenica, nella Bosnia degli anni ’90, di ottomila musulmani: uomini e ragazzi, uccisi in modo sistematico (davanti al silenzio dei caschi blu olandesi). Hanno pagato, tra detenzione e suicidi e morte in cella, figure tutto sommato minori, protagonisti di una guerra regionale. Venne processato per genocidio Saddam Hussein, il dittatore iracheno, condannato a morte da un tribunale speciale iracheno non senza imbarazzo di tanti Paesi imbarazzati dalla pena capitale.
E adesso verrà condannata Israele? Basterà che i suoi avvocati – la denuncia sudafricana parla di genocidio attuato nell’arco che va dalla nascita di Israele a oggi – facciano notare che da allora, dalla prima Nakba, il primo confronto armato che costrinse molti palestinesi all’esodo, la popolazione palestinese si è quintuplicata. Ma in realtà quello che il Sudafrica cerca non ha bisogno di attendere un verdetto morale: basta sfregiare l’immagine di Israele. Augurarsi che gli ostaggi tornino a casa, che le operazioni per cancellare Hamas diventino selettive, che Gaza e la Cisgiordania siano governate da palestinesi che accettano l’esistenza di Israele, che non festeggiano i massacri, che accettano un dialogo, augurarsi che Israele sia governata senza ammiccamenti alla violenza dei coloni, verso una convivenza che non sia fondata solo sulla forza della deterrenza, non è qualcosa che nasce nei tribunali.