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Salute

Non dipendiamo dal lavoro

03.05.2024

Garantire un giusto equilibrio tra vita professionale e privata è una questione fondamentale per la salute mentale. Nasce il concetto del “diritto alla disconnessione” per preservare ognuno il proprio benessere.

In un mondo massimamente digitalizzato, dove la tecnologia permea ogni aspetto della nostra quotidianità, vi è una costante interconnessione tra vita lavorativa e sociale. Emerge, pertanto, come tema rilevante il concetto di “diritto alla disconnessione“. Si tratta del diritto dei lavoratori di staccare da ogni mezzo tecnologico legato al proprio impiego oltre l’orario prestabilito dal contratto, al fine di preservare il proprio benessere psicofisico e con l’obiettivo di garantire il giusto e corretto equilibrio tra vita professionale e privata.
In tempo di pandemia, in cui prevaleva per ovvie necessità il ricorso allo smart-working, accadeva che lavoro e tempo libero si alternassero durante l’intera giornata. Questo ha reso ancora più difficile la separazione tra le due sfere, quella lavorativa e quella privata. Proprio per tale motivo, negli ultimi anni il dibattito sul diritto alla disconnessione sta acquisendo crescente interesse.

 Si tratta del diritto di dire “basta”, di staccare la testa da pensieri e questioni legati alla propria professione, ritagliando degli spazi per la propria persona e per liberare la mente. Un delicato equilibrio che consente di non rispondere alle chiamate, alle mail e alle notifiche di lavoro una volta superato l’orario stabilito dal contratto. Ma quali sono i principali rischi dell’essere costantemente connessi? Anzitutto l’alto rischio di burnout, o sindrome da stress lavoro-correlato. In sostanza, la persona, a causa di molteplici fenomeni di logoramento e affaticamento lavorativo, va in cortocircuito. In secondo luogo, il workaholism o work addiction, ovvero la dipendenza dal lavoro. Si tratta di un fenomeno non ancora pienamente riconosciuto dalla società come un disagio patologico. In Giappone, ad esempio, è largamente diffuso ed è causa di decessi a seguito di infarti cardiaci e ischemie, causati dalle eccessive ore lavorative e da condizioni stressanti.

Già in molte nazioni dell’Unione Europea e del mondo questo tema è regolato da una legge apposita. In questa direzione si è mossa per prima la Francia nel 2016. In Belgio, oltre 65mila dipendenti pubblici sono tutelati da normative specifiche, mentre in altri contesti sono state le imprese a optare per tale direzione. In Italia, la legge 81 del 2017 sul lavoro agile prevede che “nel rispetto degli obiettivi concordati e delle relative modalità di esecuzione del lavoro autorizzate dal medico del lavoro, nonché delle eventuali fasce di reperibilità, il lavoratore ha diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche di lavoro senza che questo possa comportare, di per sé, effetti sulla prosecuzione del rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”. La norma, che riguarda in sostanza solo i lavoratori in smart working, andrebbe opportunamente estesa a tutte le categorie di lavoratori e soprattutto a quelli ai quali viene richiesto un alto grado di reperibilità. È un suggerimento che arriva anche dai medici del lavoro. Molte imprese italiane hanno fatto propria questa esigenza, dando un segnale di sensibilità e consapevolezza alla tematica. Ma non sempre e non dappertutto questo diritto viene recepito.

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