03.10.2024
Ucciso Nasrallah, tutti d’accordo sull’inconvenienza di un’azione simmetrica in risposta alla pioggia di missili iraniani caduti sullo Stato ebraico, persino gli USA. La punizione guiderà il mondo dritto nel caos, compreso Israele, con il quale si trattano le aspettative sul banco degli obiettivi da colpire. Elezioni americane motivo di tregua.
Dopo la pioggia di missili balistici iraniani, il mondo resta con il fiato sospeso: come reagirà Israele? Seguirà la propria tradizionale politica di non lasciare impunito alcun attacco o si lascerà convincere dalle raccomandazioni di quanti temono un’ulteriore espansione della crisi politico-militare in Medio Oriente? Tra questi ci sono gli Stati Uniti, il cui presidente Joe Biden ha già esortato a non colpire le sedi del programma atomico iraniano, che da tempo rappresenta una delle maggiori preoccupazioni di Israele.
D’altra parte, nella regione impera la logica “occhio per occhio”. Proprio questa aveva costretto l’Iran, la potenza sciita che controlla e coordina le “tre H” di Hezbollah, Hamas e Houthi, a rispondere ai durissimi colpi che Israele ha assestato ai suoi proxy, gli alleati-delegati che hanno sinora portato avanti i suoi scopi in forma indiretta. Se Teheran non li avesse protetti, avrebbe perso autorevolezza e influenza su di loro. D’altra parte, collegando esplicitamente il lancio di circa 180 missili balistici alla morte del capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, l’Iran ha gettato la maschera.
Israele potrebbe rispondere con un nuovo attacco aereo, come fece in aprile distruggendo un sito radar della difesa aerea iraniana. Nonostante i proclami trionfalistici, i missili iraniani non sono riusciti a distruggere gli F-35 sulla base di Navatim. I cacciabombardieri a bassa osservabilità potrebbero facilmente penetrare gli spazi aerei, per agire direttamente o aprire la strada agli F-15 con le bombe JDAM anti-bunker. Anche escludendo gli impianti nucleari, la lista degli obbiettivi potenziali è lunga. Ma poi?
Ciò che spaventa è proprio la difficoltà di fermare la spirale di botta e risposta, fino ad arrivare a una guerra regionale in grado di destabilizzare grandi territori e interi settori economici: basti pensare ai danni causati dalla minaccia Houthi sulle rotte marittime che passano per Suez e il Mar Rosso. In teoria, attacchi diretti a obiettivi in territorio iraniano – si pensi agli impianti petroliferi, ideali per mettere in ginocchio l’economia di Teheran – potrebbero causare una sollevazione popolare contro il già traballante regime degli ayatollah. Un risultato, questo, che molti dentro e fuori la regione apprezzerebbero. Ma è anche vero il contrario: l’Iran potrebbe alzare ancora la posta, magari esportando la guerra in Occidente, dove le folle filopalestinesi nascondono certamente anche frange estremiste pronte ad agire.
A complicare le cose è anche l’asimmetria degli obbiettivi. Per l’Iran, allargare il conflitto fino a farlo diventare Occidente contro Islam sarebbe una vittoria. Per Israele, difendersi da solo è una garanzia di sicurezza fin quando la sfida non diventa troppo grande per un Paese pur sempre piccolo in termini geografici e di popolazione. Le elezioni presidenziali americane, ormai distanti poco più di un mese, sono un incentivo alla tregua (come spera Biden) o alla guerra (per portare Trump alla Casa Bianca)? Difficile dirlo.
Mentre nel mondo la comunità ebraica festeggia Roshashana, il Capodanno della propria religione, è questo il calcolo in corso nelle capitali e nelle sedi diplomatiche di tutto il mondo. Come tenere insieme la punizione dei bombardamenti indiscriminati e il contenimento di una violenza sempre pronta a scappare di mano?