10.12.2024
La precipitosa fuga di Bashir al Assad verso Mosca, probabilmente a bordo di un cargo Il-76, segna l’uscita della Russia da uno dei tanti scacchieri della geopolitica globale, il più difficile e decisivo per la presenza russa negli equilibri del Medio Oriente. Le analisi.
Putin pigliatutto o perde tutto? L’interrogativo, sulla bocca di tutti da quando, quasi tre anni fa, la Russia ha invaso l’Ucraina, si ripropone con forza a ogni minimo cambiamento della scena internazionale. Il più recente, tutt’altro che minimo, è la perdita della Siria, primo e più forte alleato russo in Medio Oriente. Una sconfitta che cancella, con la sua concretezza, la pubblicità positiva del recente vertice dei BRICS, ma anche delle speranze di riequilibrio legate all’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump.
La precipitosa fuga di Bashar al-Assad verso Mosca, probabilmente a bordo di un cargo Il-76, segna l’uscita della Russia da uno degli scacchieri più difficili e incerti del momento. In termini diretti, il tracollo priva la Russia del suo unico porto nel Mediterraneo, ma soprattutto ne certifica l’incapacità di sviluppare azioni militari complesse. Peggio ancora, pur operando nella zona da quasi 15 anni, l’intelligence russa non sembra aver avuto alcun sentore dell’attacco che ha travolto in un paio di settimane. In Siria Putin non è neppure riuscito a organizzare i bombardamenti indiscriminati contro gli obiettivi civili che dalla Cecenia in avanti ne contraddistinguono l’azione.
Un’altra battuta d’arresto è giunta dalla Romania, dove la Corte Suprema ha annullato la vittoria al primo turno dello sconosciuto candidato presidente Călin Georgescu per presunte interferenze russe sul voto. Pur ponendo qualche dubbio di legittimità (ci sarebbero state analoghe cautele se avesse vinto un candidato filo-occidentale?), la decisione segnala che il livello di sensibilità e attenzione alla guerra ibrida è cresciuto e che vi è meno paura a denunciarlo. Persino la vittoria in Georgia è un segnale di debolezza. Non solo per il fortissimo sospetto di brogli, ma per le imponenti manifestazioni che dimostrano la fragilità del successo filorusso. Comunque vada a finire, le immagini catturano le dimensioni delle aspirazioni europeiste e democratiche.
Il segnale più importante resta però la Siria. Il crollo precipitoso dell’alleato storico certifica la difficoltà della coperta russa di coprire le sue vastissime ambizioni. L’importazione – se così si vuole chiamarla – di truppe nord coreane, pagata con il trasferimento di caccia Su-27 e MiG-29 ne è un segnale importante. Primo, perché conferma l’impossibilità di spremere altre risorse umane dal proprio interno senza dover toccare i grandi centri urbani di Mosca e San Pietroburgo, cioè i figli della borghesia putiniana. Secondo, perché la Russia fatica a produrre armamenti sofisticati e quindi potrà ben difficilmente sostituire quanto cede.
Tutto questo si ripercuoterà sulla Libia, dove la Turchia, che già tanto ha contribuito al collasso di Assad, potrebbe acquisire nuovi spazi. La penetrazione russa in Africa, a lungo vittoriosa, potrebbe incontrare difficoltà impreviste, a tutto vantaggio della Cina.
E che dire del fronte dei paesi del Nord Europa, sempre più determinati a contrastare il tentativo ricreare una sfera d’influenza russa sull’Europa orientale? La scelta dell’ex primo ministro lituano Andrius Kubilius quale primo commissario alla difesa dell’Unione è un passaggio di testimone più che simbolico. Alla vigilia dell’insediamento della seconda presidenza di Donald Trump, a lei assai più favorevole di quella Biden, la Russia si presenta dunque più debole di quanto apparisse appena tre mesi fa. La domanda resta quanto ciò influirà sulle trattative per l’Ucraina e gli altri fronti di crisi.
Credito fotografico: Sito del Cremlino