18 Gennaio 2025
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Cultura

Il Forrest Gump che è in noi

16.01.2025

Chi avrebbe mai immaginato che un uomo, nato disabile, avrebbe ribaltato stereotipi e convincimenti? Il paternalismo con cui si guarda spesso alle persone “strane”, trattandole da creature aliene rispetto al nostro concetto di normalità, cede il passo ad una vita vissuta diversamente e per questo “speciale”.

Sensazione di un cambiamento o di perdita. Con l’avvento delle piattaforme digitali è possibile recuperare immediatamente quegli aspetti “sentimentali” legati ad un racconto che ci coinvolge. Perché Forrest Gump, la pellicola di Robert Zemeckis, interpretata da Tom Hanks, al di là di qualsiasi freno pregiudizievole continua a produrre effetti magnetici trascinandoci dentro un tempo sospeso e straniante. A trent’anni dall’uscita nelle sale cinematografiche, persiste una sorta d’incantamento che, superata la soglia dell’ingenuità sottesa, puntella, sì, per contenuti, una storia visuale pubblica americana, ma universale come messaggio.

Di certo, è difficile dipanare la matassa di una favoletta modello Disney intessuta di d’infantilismo a dire della critica superciliosa, eppure quel film che il Washington Post aveva definito “un’occasione per costruirsi falsi ricordi, per salvare il nostro ego maltratto, facendolo sprofondare in una nostalgia che assomiglia a un sonno morale”, era approdato (alla fine) sul lettino d’un’ideale seduta d’autocoscienza collettiva, che partendo dai “veri valori americani” si faceva manifesto del populismo, per trasformarsi nella metafora di un cittadino fragile ed obbediente a qualsivoglia potere, in una sorta di manifesto del “buonismo”doc in salsa progressista. Una sorta di calderone in cui mettere qualsiasi cosa vi si potesse vedere dentro (leggasi, risposte), in grado di lasciarsi alle spalle i fantasmi della guerra in Vietnam, sfiorare la vecchia dimensione razzista, e affidare al percorso del bambino paraplegico, diventato corridore imprendibile, tutte le speranze di un’America forte capace di superare le incertezze di una nuova economia globale e d’una rivoluzione informatica ancora nebulosa, per allinearsi (incidentalmente?) con il discorso d’insediamento dello stesso Bill Clinton “non c’è nulla di sbagliato in America che non possa essere corretto da cosa è giusto in essa”. Con addosso, quella strana sensazione di appartenere ad un’altra matrice culturale e d’immergersi, però, in una storia collettiva diventata subito nostra, correndo sul binario di un mondo reale e di un mondo immaginato, che negli anni Novanta aveva usufruito di un linguaggio cinematografico (e non solo) inedito. Ma cosa c’è dietro Forrest Gump, diventato per i nostri millennial un film di formazione, che schiaccia il pedale della nostalgia di allora, e che le nuove tecnologie sembrano rivitalizzare in modalità diverse? Fermata d’autobus: l’immagine di Tom Hanks seduto su quella panchina con una piccola valigia accanto, diventa icona di una “civiltà stanca e racchiusa nel sentimentalismo” (Nadine Godimer, premio Nobel), ma anche il pretesto dell’”autobiografia di un idiota” come la definisce Winston Groom nel romanzo (1986) da cui è tratto il film.

Dopo aver raccolto una piuma posatasi sui piedi ed il saluto all’infermiera che gli siede accanto, nell’arco di sette flashback, Forrest diventa il protagonista di esperienze uniche, senza saperlo e curarsene: campione sportivo, eroe di guerra in Normandia, naufrago su un’isola deserta, grande manager, intrappolato nell’aeroporto JFK, sempre pronto ad interagire col suo linguaggio semplice e basico con Elvis Presley, John Lennon, i presidenti Kennedy, Johnson e Nixon. Corre, corre, per oltre tre anni, superando spazi sconfinati, ostacoli e regole, sospinto dalla fiducia trasmessagli dalla madre e dall’amore incondizionato per Jenny. Lo spettro autistico aleggia nella reiterazione di comportamenti, disvelando qualcosa di fiabescamente intimo nella complessità delle persone diversamente speciali che, nella vita reale, somigliano a Forrest. “La vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita”, la frase cult, ribalta il nostro concetto di normalità (presunta), rimodellato da una stranezza illuminante.

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