10.02.2025
Gli Stati Uniti di Trump hanno deciso di uscire dall’Oms, aumentando il rischio di un’epidemia globale peggiore del Covid. Di lasciare il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, indebolendo le libertà fondamentali nel momento in cui sono più deboli. Di attaccare la Corte penale internazionale, dando una mano ai criminali di guerra in crescita.
Tutto ciò sta facendo passare in secondo piano la questione ambientale. Non ci vuole un sondaggio per capire l’umore del tempo: se siamo combinati così oggi, vale la pena preoccuparsi del domani? Lo scenario climatico a metà del secolo è drammatico, ma prima bisogna arrivarci.
Ecco: forse il problema sta proprio qui, in questa idea di un prima e di un dopo. Costruire la solidità politica prima, la crescita economica prima; curarsi dell’ambiente dopo. Non funziona. E la crisi attuale lo dimostra. La prima volta che Trump decise di portare gli Stati Uniti fuori dagli accordi di Parigi sul clima, nel 2017, fu uno shock, ma uno shock in larga misura limitato al mondo dell’ecologismo: per molti la questione ambientale poteva essere sacrificata, era il lusso dei momenti buoni.
Non è andata così. E la ragione è semplice. L’ambiente è il bene comune per eccellenza: la necessità di respirare aria che non faccia ammalare, di mantenere l’unico clima in cui possiamo sopravvivere è ciò che accomuna tutti gli umani. Attaccare questo legame è stata la premessa per l’assalto alla democrazia basata sulla rappresentanza e sull’equilibrio dei poteri. In gioco ci sono le basi della nostra società: il diritto separato dalla forza; la guida politica scelta attraverso una consultazione elettorale e non per acclamazione via web; i limiti che impediscono ai supermiliardari di accumulare un potere maggiore di quello di molti Stati.
È possibile oggi ricostruire le basi della convivenza? Partendo da dove? La formula della transizione ecologica equa e solidale sembrerebbe avere i requisiti giusti. Contiene un’idea di protezione per tutti e in particolare per chi è in difficoltà, tiene dentro la questione ambientale e quella sociale.
Perché allora non morde? Perché i partiti che fanno dell’anti ambientalismo una bandiera crescono? Prendersela con Trump significa scambiare l’effetto con la causa. La causa è che, nei Paesi occidentali, con l’accelerazione della globalizzazione molti rischiano di finire ai margini. Con il rischio cresce la paura. E con la paura la voglia di scorciatoie, di affidarsi a un potere muscolare che indica un nemico su cui far convergere la rabbia. Il paradosso dell’impero dell’ego trumpiano è che crea un noi, ma è un noi distruttivo.
L’Unione europea potrebbe essere l’antidoto a questo male, potrebbe creare un noi costruttivo. Ha un sistema di contrappesi sociali che finora ha aiutato la difesa dei più deboli. Guida da decenni l’eco diplomazia. Ha elaborato il Green Deal. Però rischia di fare la fine del dodo, un uccello endemico dell’isola di Mauritius che, in assenza di predatori naturali, nel corso dell’evoluzione aveva perso la capacità di volare: si estinse quando arrivarono le barche dei marinai olandesi cariche di formidabili predatori come ratti, maiali e macachi.
Per volare l’Europa ha bisogno di ritrovare il suo soft power. Fatica a dialogare con le sue imprese: le sostiene meno dei competitor e le appesantisce con un sistema di leggi elefantiaco. Fatica a trovare unità attorno a politiche di lungo respiro. Fatica a formulare messaggi forti. Quando ha provato a darsi una Costituzione, è venuto fuori un testo di 300 pagine che sfidava il lettore con 448 articoli (ovviamente è stato bocciato da vari referendum anche perché nessuno era riuscito a leggerlo). Se Trump dice quello che deve dire in quattro parole (Make America Great Again) e l’Europa ha bisogno di quattro volumi, la partita è persa.
L’Unione Europea potrebbe superare questi problemi elaborando un piano concreto per tenere assieme diritti e capacità industriale, sostegno ai più deboli e conti in ordine, ricchezza del messaggio e capacità di sintesi. Se non ci riuscirà, in discussione non sono i trend al centro dello scontro politico: la globalizzazione non si può fermare e la conversione ecologica è l’unica opzione per salvare il clima che ci permette di vivere. In discussione è l’attore dei cambiamenti in corso. Ad oggi il candidato meglio piazzato è la Cina, che ha già conquistato buona parte del mercato green e guadagna ogni giorno credibilità nei Paesi minacciati da Trump.
Dovremo rassegnarci a parlare cinese? Anche imparando bene la lingua, in un mondo dominato da Pechino la libertà di espressione rischierebbe di risultare impoverita. Meglio tifare per l’Europa.