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Spettacolo

“Prometeo incatenato”, nella fabbrica abbandonata dove la natura è sconfitta

17.05.2023

C’è il rischio di seminare morte rincorrendo il benessere? Stiamo superando i limiti? Quando bisogna fermarsi? Contemporanea suggestiva traduzione poetica di Roberto Vecchioni insieme alla visione di Leo Muscato inseriscono la tragedia di Eschilo nel contesto di un sito industriale desolato, simbolo della deriva della tecnica.

Il sole che tramonta e si tuffa nel mare vicino è soltanto una carezza, quando ci si siede sui gradini smozzicati dai millenni nel Teatro Greco di Siracusa. Poi, quando l’azione prende corpo, i dubbi s’affastellano. Sembra che i limiti si presentino all’improvviso, con Eschilo espressione di una tragedia (quella ateniese del V secolo a.C.) che è “fatto sociale totale” e forma politica. Una sorta di specchio infranto con riflessi concatenanti: spaziali, sociali, economici, temporali (ecco, l’eternità del messaggio). Il dramma che incombe su questo nostro mondo incurante delle regole, irrispettoso dell’ambiente che lo circonda, e perso nella bulimia di una corsa irrefrenabile verso l’incrinatura di un equilibrio cosmico, sembra accomunare “Prometeo” a Josef K. del “Processo” kafkiano.

Aver infranto la legge per salvare la stirpe dei mortali, ponendosi a difesa dell’uomo, seppur intaccando l’ordinamento di Zeus, configura l’insanabile fattura tra umano e divino. Con quel vuoto che sa di straziante lontananza e volontà di risalita per riconquistare la luce perduta attraverso una minaccia di autodistruzione che mina certezze, fiacca propositi. Il protagonista eschileo è in fondo l’incarnazione di un paradosso sul quale si fonda l’instabile esistenza del genere umano: ribellarsi perché vittima di un’ingiustizia ingenera distacco da un ente superiore. Così, Prometeo incatenato ad una rupe della Scizia (tra Polonia, Kazakistan ed Ucraina) perché reo di aver fatto dono ai fragili uomini del fuoco (l’elemento che crea ogni risorsa), subisce la punizione sotto l’occhio severo di Efesto (dio delle fiamme) di Cratos (Potere) e Bia (Forza), con Zeus incombente e tiranno, adirato con l’umanità intera e con chi l’ha difesa.

Uno spazio livido, deriva della tecnica, che per il regista Leo Muscato è una fabbrica in lento disfacimento, rugginosa, sovrastata dal clangore assordante di ferraglia, tra tubi, carrelli, in un quadro apocalittico accostabile a Blad Runner o a Philip Dick. Sul tappeto di canti macedoni e sonorità berbere, con Io (Deniz Özdogan) sacerdotessa danzante capace di innalzare il cielo in terra e la terra in cielo, desiderio di Zeus, trasformata in giovenca da Era per gelosia, e poi di nuovo donna foriera di speranza. Sul filo di una recitazione simil ronconiana o d’enfasi antica, i “fermo immagine” suggestivi delle Oceanine in mise donna-pesce, i pantaloni d’argento e giacche lamé. Prometeo (un Alessandro Albertin rabbioso, tragicamente pacato), colpevole di hybris, è incatenato ad una ciminiera metallica, tra chiazze di petrolio fuoriuscenti da un bunker sotterraneo ed un binario morto, di quelli diretti ai campi di concentramento, animato, però, dai rappresentati del potere sordo, cieco, ipocrita, Cratos, Bia, Efesto, Oceano, Hermes in conflitto con chi ha sfidato l’ordine divino. Non basterà l’atto di generosità nei confronti dell’umanità e dei più deboli, la lotta per la libertà, per prevedere il futuro, anche per chi come lui, titano preveggente, possiede tutte le tecnè e osa sfidare Zeus. Si arrende: «La tecnica è di gran lunga più debole del destino».

L’uomo, utilizzandola insieme ad un sedicente sapere, distruggerà la natura attraverso i secoli: il progresso rischia di ritorcersi contro. Ecco, il fulcro della messinscena che si riverbera sul nostro tempo inquieto. Prometeo, lucidamente consapevole del superamento di ogni limite e della minaccia di una corsa insensata verso la morte generata dal benessere, è roso dalla sofferenza di non poter comunicare con gli esseri umani. Incatenato, impotente, è lì, davanti a un disfacimento “pieno di vuoto” che lega passato a futuro, e viceversa.

Crediti fotografici:

Alessandro Albertin, Prometeo; fotoBallarino

Alfonso Veneroso, Oceano;_foto Centaro

 

 

 

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