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Esteri

Russia Serbia, Kosovo e la strategia del rischio

02.06.2023

Le recenti tensioni hanno origine nell’indipendenza proclamata nel 2008 dalla provincia ex Jugoslavia, accettata dall’Occidente, già presente con la forza di pace KFOR, ma mai riconosciuta da Belgrado.

Cosa c’è dietro gli scontri nazionalisti serbi e forza di pace KFOR in Kosovo? E soprattutto, cosa c’è davanti? Sono domande al tempo stesso facili e complicate. Bisogna innanzi tutto ricordare che la NATO – ma bisognerebbe dire l’Europa, giacché di americani non si vede l’ombra – è presente in Kosovo a causa della disgregazione della Jugoslavia, “lo stato degli slavi del Sud” creato dopo la Prima guerra mondiale per stabilizzare l’area nella quale il conflitto era nato. In particolare, KFOR deve evitare che i serbi, protagonisti delle guerre con la Croazia e la Bosnia-Erzegovina, riprendano la cosiddetta “pulizia etnica” contro l’etnia locale, in larga parte musulmana. La NATO, insomma, non occupa nessuno, ma si interpone per evitare che le tensioni tra le diverse componenti esplodano.

Come la Russia, con la quale ha legami secolari, evidenti già nei colori delle bandiere, la Serbia non accetta la riduzione di status conseguente alla dissoluzione della Repubblica Federale Socialista Jugoslava, da loro largamente dominata sopraffacendo gli altri gruppi etnico-nazionali. Come i politici russi, quelli serbi usano il nazionalismo come collante interno e valvola di sfogo delle proprie tensioni. E infine, come la Russia la Serbia fatica ad accettare che l’ammissione nella comunità internazionale comporta la rinuncia alla violenza e alle pretese territoriali a danno dei vicini. In questo quadro, gli scontri attuali nascono dal rifiuto serbo di riconoscere le elezioni comunali nella parte settentrionale del Kosovo, che per il boicottaggio della maggioranza serba hanno inevitabilmente comportato la vittoria della minoranza albanese.

Senza KFOR, le elezioni non si sarebbero svolte affatto. Anzi, la Serbia avrebbe probabilmente tentato di occupare nuovamente quella che considera una provincia ribelle, benché circa 100 Stati la riconoscano come nazione. Se ciò fosse accaduto, il mondo conterebbe non soldati feriti, ma civili morti e una nuova fuga, non diversa da quella che quasi trent’anni fa portò ad abbandonare le proprie terre circa un milione di kosovari.

In questo difficilissimo contesto, l’Occidente ha la colpa di aver accettato l’indipendenza dalla Serbia proclamata unilateralmente dal Kosovo nel 2008, una decisione comprensibile nel caso specifico ma anche un pericoloso precedente invocato dalla Russia quando ha voluto annettere Crimea e Donbass. Più che nella scarsa lungimiranza di allora – si pensi alle possibili conseguenze di referendum autonomistici non riconosciuti, in Scozia, Catalogna o in Belgio – il problema sta oggi nello sfruttamento della situazione da parte russa per creare difficoltà politiche nelle retrovie dell’UE.

La strategia russa nei Balcani è dunque quella di sostenere il nazionalismo serbo per sottrarre energie militari e politiche di supporto dall’Ucraina. Ma la Serbia sa bene di non poter ricevere aiuti da Putin, isolato geograficamente ed economicamente e in difficoltà già con il solo fronte ucraino. Se la crisi dovesse precisare, KFOR sa di poter contare sulle dotazioni tecnologiche dell’Occidente e su linee logistiche molto corte. Insomma, il gioco della tensione fatto in tre è molto pericoloso per la Serbia. La Russia vince creando difficoltà a NATO e UE, senza pagarne alcuna conseguenza. L’Occidente sa di poter vincere sul campo, sia pure con qualche difficoltà politica. La Serbia rischia non solo di trovarsi isolata, fuori dall’UE per decenni, ma anche sconfitta militarmente e costretta ad accettare una pace più umiliante degli Accordi di Dayton e una presenza NATO ancora più forte.

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