Da Milano a Palermo, da Torino a Bari, tutte le città capoluogo italiane soffrono l’effetto delle isole di calore, ma non tutte allo stesso modo. È quanto emerge da un’accurata analisi condotta dall’Istituto per la bioeconomia del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibe) insieme all’Ispra, pubblicata sulla rivista Remote Sensing Applications: Society and Environment. Lo studio, parte del progetto Mirificus, ha utilizzato dati satellitari della Nasa e di Copernicus per monitorare il fenomeno tra giugno e agosto nel decennio 2013-2023.
L’obiettivo: quantificare le isole di calore superficiali, ovvero quelle aree urbane che, a causa della presenza massiccia di asfalto, cemento e altri materiali impermeabili, si surriscaldano molto più delle zone rurali circostanti. Un effetto che altera il microclima urbano e, con il cambiamento climatico in atto, rende sempre più critica la vivibilità delle città.
Contrasti termici forti
Lo studio ha permesso di tracciare una distinzione chiara tra due gruppi di città. Da una parte ci sono quelle con una morfologia complessa, più collinare o montana, e una buona presenza di verde, soprattutto nelle periferie. È il caso di L’Aquila, Genova, Torino, Trieste e Trento. Qui l’effetto isola di calore si concentra soprattutto nel centro urbano, dove la densità edilizia e la scarsità di vegetazione provocano un accumulo termico marcato, in netto contrasto con le zone periferiche più fresche.
“Queste città – spiega Marco Morabito, ricercatore del Cnr-Ibe e coordinatore dello studio – mostrano una forte differenziazione termica tra centro e periferia, proprio per la combinazione tra la conformazione del territorio e la distribuzione del verde. Le aree più urbanizzate sono molto più calde, mentre le zone periferiche, spesso più verdi e meno cementificate, restano relativamente fresche”.
Dove non c’è scampo
Tutt’altra storia per le città costruite in pianura, con una distribuzione del verde meno omogenea. Napoli, Milano, Roma, Firenze e molti capoluoghi del Sud Italia mostrano un’isola di calore sostanzialmente diffusa su tutto il tessuto urbano. In alcuni casi, addirittura, sono le periferie a risultare più calde del centro, a causa della minore presenza di alberi e di una pianificazione urbana più disordinata.
“Dove la topografia è più piatta – continua Morabito – e il verde urbano è distribuito in modo irregolare, non sempre il centro è il punto più caldo. Le periferie possono soffrire di più, specialmente in assenza di alberature e con ampie aree asfaltate o industriali”.
Gli alberi come aria condizionata naturale
Ma una soluzione c’è, ed è sotto gli occhi di tutti: il verde urbano, in particolare gli alberi. I dati raccolti dal team del Cnr e dell’Ispra dimostrano che un incremento del 5% della copertura arborea comunale è sufficiente per abbassare di oltre mezzo grado la temperatura media superficiale. Un intervento apparentemente semplice, ma con impatti significativi sulla salute pubblica, soprattutto durante le ondate di calore.
“Queste informazioni – sottolinea Morabito – possono guidare scelte strategiche a livello urbano: piantare alberi, creare parchi, ridurre il consumo di suolo, progettare spazi verdi nelle aree più colpite. Interventi che mitigano il clima e migliorano la qualità della vita urbana”.
Conoscere il calore per combatterlo
Il termometro nascosto delle città ora ha una mappa. Grazie ai dati satellitari e alla ricerca scientifica, è possibile capire dove intervenire per rendere le città italiane più vivibili e resilienti. Non basta più limitarsi all’aria condizionata: serve una strategia urbana che metta al centro il verde. E che riconosca che, quando si parla di caldo urbano, ogni città ha il suo profilo termico. Conoscerlo è il primo passo per cambiare le cose.