Chi soffre di allergie stagionali sa cosa aspettarsi: starnuti, occhi che bruciano, tosse insistente. Con il clima che cambia, la stagione del tormento non solo arriva prima, ma non vuole più andarsene. I giorni senza gelo sono sempre meno, le piante hanno più tempo per rilasciare i pollini e i sintomi peggiorano. A soffrirne di più sono bambini e anziani, in particolare quelli con patologie respiratorie croniche come l’asma e la bronco pneumopatia cronica ostruttiva (Bpco), che già colpiscono milioni di italiani. Ma se il cambiamento climatico aggrava i disturbi, paradossalmente anche una delle cure più comuni finisce per peggiorare le cose: gli inalatori, spesso usati per trattare queste condizioni, sono piccoli ma significativi inquinatori.
Il problema è nel gas propellente. Oggi la maggior parte degli inalatori in commercio – soprattutto quelli a dosaggio predosato – usa idrofluorocarburi (Hfc), gas serra migliaia di volte più potenti della CO2. Ogni singolo “puff” può sembrare innocuo, ma messo in fila ai milioni venduti ogni anno, l’impatto ambientale è tutt’altro che trascurabile. Ad esempio, negli Stati Uniti, le emissioni legate agli inalatori nel 2020 equivalevano a quelle prodotte da 600.000 auto in un anno. In Europa le proporzioni non sono molto diverse.
Le alterative
Eppure esistono alternative. Gli inalatori a polvere secca e quelli a nebulizzazione – che non richiedono propellenti – hanno un’impronta climatica fino a 30 volte inferiore. Non sono adatti a tutti, soprattutto nei casi acuti in cui è utile l’effetto propulsivo, ma per la maggioranza dei pazienti rappresentano un’opzione valida. Aziende come GSK e AstraZeneca sono in piena fase di sperimentazione per sostituire il propellente dei loro più diffusi inalatori – come Ventolin o Breztri – con nuove molecole a basso impatto. Si parla di riduzioni delle emissioni fino al 90%, senza alterare l’efficacia o l’usabilità del farmaco. AstraZeneca ha stanziato oltre 400 milioni di dollari per sviluppare inalatori a basse emissioni. GSK, dal canto suo, punta a sostituire il propellente del Ventolin – responsabile da solo del 49% dell’impronta carbonica dell’azienda – entro il decennio.
Anche in Italia qualcosa si muove. Il gruppo Chiesi ha avviato una fase III di sperimentazione su inalatori carbon minimal, sviluppati con propellenti a basso potenziale di riscaldamento globale. L’obiettivo dichiarato è duplice: garantire al paziente la massima efficacia terapeutica, senza dover scegliere tra salute e sostenibilità. Perché è proprio questo il paradosso: usare un farmaco per aiutare a respirare meglio e allo stesso tempo contribuire a un riscaldamento globale che rende l’aria sempre più irrespirabile.
Il cerchio si chiude se si guarda al dato forse più inquietante: il cambiamento climatico stesso sta intensificando le allergie. Secondo la Società Italiana di Allergologia e Immunologia Clinica, in Italia la stagione dei pollini nel 2024 è iniziata fino a 25 giorni prima rispetto al passato e si è protratta di circa 20 in autunno. Dieci giorni in meno di gelo rispetto alla media 1991-2020 hanno regalato alle piante un mese e mezzo in più per rilasciare pollini. E con livelli di CO2 atmosferica più alti, le graminacee e l’ambrosia producono fino al doppio. Un cocktail micidiale per chi soffre di riniti, asma e BPCO.
Resta però il nodo dell’accessibilità. Gli inalatori alternativi, oggi, costano di più e spesso mancano le versioni generiche. E anche se il prezzo non sempre si riflette direttamente sul paziente, il timore che la transizione green possa pesare sui costi sanitari c’è. Senza contare il problema del riciclo: la maggior parte di quelli usati finisce nell’indifferenziata, con tutto il gas residuo ancora dentro. Servirebbe un impegno collettivo, da parte dell’industria, delle farmacie e delle istituzioni.