Sembrava l’occasione giusta. Alla Conferenza Onu sugli Oceani di Nizza, il mondo doveva chiudere finalmente il capitolo aperto del Trattato BBNJ – l’accordo per proteggere la biodiversità dell’alto mare, quelle acque internazionali da cui dipende l’equilibrio dell’intero pianeta. E invece quando il sipario è calato all’appello mancavano dieci ratifiche. Tra cui quella dell’Italia.
Un’occasione mancata, pesante soprattutto per chi, come il nostro Paese, un anno fa assicurava a gran voce una “rapida approvazione” dell’accordo. Era l’aprile del 2024 e le dichiarazioni del governo promettevano un sostegno pieno e immediato al Trattato. Oggi, quattordici mesi dopo, tutto tace. E mentre altri – dalla Francia al Portogallo, dalla Grecia alla Croazia – hanno già fatto la loro parte, l’Italia resta inchiodata all’immobilismo. Le firme raccolte si fermano a cinquanta, dieci sotto la soglia necessaria per far scattare l’entrata in vigore. Il mare, ancora una volta, può aspettare.
La denuncia della società civile
Ma chi conosce davvero il valore del mare, non sta zitto. A partire da Slow Food Italia, che ha espresso “profondo rammarico” per la mancata ratifica, sottolineando l’incoerenza tra promesse e atti concreti. Barbara Nappini, presidente dell’associazione, ha detto: “Ogni passo indietro è un macigno sulla credibilità politica di chi è deputato a decidere”.
Un ritardo che non è solo un inciampo diplomatico, ma un colpo alla tutela concreta di ecosistemi marini sempre più fragili. Il rapporto 2024 della Fao non lascia margini di ambiguità: più di un terzo degli stock ittici mondiali è sovrasfruttato, e il dato cresce di anno in anno. La pesca illegale e non regolamentata, lungi dall’essere un fenomeno esotico, colpisce anche il Mediterraneo e le coste italiane, mettendo in ginocchio intere comunità di pescatori onesti e l’intero equilibrio ecologico.
L’allarme di Marevivo
Dalla società civile si alza anche la voce di Marevivo, che alla conferenza ha lanciato un appello accorato: “Dipendiamo dagli oceani, ma li stiamo perdendo”. L’organizzazione ha denunciato il vuoto normativo che ancora oggi lascia due terzi del mare privi di tutele giuridiche. Il rischio è quello di un Far West marino, dove l’assenza di regole spalanca la strada a estrazioni minerarie in acque profonde, pesca industriale selvaggia e inquinamento diffuso.
Nel corso degli incontri Marevivo ha sostenuto la necessità urgente di un accordo globale contro l’inquinamento da plastica e ha rilanciato il sostegno alla moratoria sul deep-sea mining, schierandosi apertamente con Emmanuel Macron, tra i pochi leader ad aver chiesto uno stop immediato allo sfruttamento dei fondali oceanici. Perché il mare non è una miniera: è un sistema vivo, delicato, che ci offre ossigeno, clima, biodiversità, cibo, ma anche bellezza e cultura. E trattarlo come un pozzo da prosciugare non è solo irresponsabile: è suicida.
Una battaglia ancora aperta
Nel frattempo, qualcosa si muove. L’Unione Europea ha promesso nuovi fondi per rafforzare le politiche oceaniche, dalla ricerca alla protezione degli habitat. Francia e Brasile hanno chiesto con forza che la questione marina venga inserita nei piani climatici in vista della COP30. E altri Paesi – Germania, Regno Unito, Norvegia – hanno messo sul piatto decine di milioni per progetti sul clima, le barriere coralline, la lotta alla plastica. Ma senza il Trattato Onu, senza una cornice vincolante, il rischio è che tutto resti nelle mani della buona volontà di pochi.
Per questo il fallimento di Nizza brucia. Perché mentre le onde continuano a salire, noi restiamo fermi. E il mare, che non fa sconti, prima o poi ci presenterà il conto.
La Conferenza Onu sugli Oceani di Nizza doveva essere l’evento decisivo per mettere finalmente sotto tutela l’alto mare, quel 60% delle acque del pianeta che non appartengono a nessuno ma da cui dipende la salute dell’intero sistema climatico. E invece si è chiusa con un buco nell’acqua. Mancavano solo dieci ratifiche per far entrare in vigore il Trattato BBNJ (Biodiversity Beyond National Jurisdiction), e tra i grandi assenti c’era anche l’Italia. Un’occasione persa che pesa, soprattutto alla luce degli impegni solenni presi appena un anno fa.
Nel 2024, esponenti del governo avevano promesso una “rapida ratifica” del trattato. A parole. Nei fatti, nulla si è mosso. Mentre Francia, Spagna, Portogallo e perfino Albania hanno fatto la loro parte, Roma ha lasciato scadere l’appuntamento. Il risultato: trattato congelato, protezione rimandata a data da destinarsi. E le acque internazionali restano, per ora, terra di nessuno – o meglio: bottino conteso.
Il grande malinteso del mare
“Difendere l’ecosistema marino non è un lusso, è una necessità globale”, ha dichiarato Slow Food Italia. Eppure il mare continua a essere percepito come un contenitore inesauribile di risorse. Un errore colossale, tanto più oggi, con oltre un terzo degli stock ittici globali sovrasfruttati, secondo l’ultimo rapporto Fao sullo stato della pesca. La tendenza è in crescita: +1% all’anno. A peggiorare la situazione ci pensa la pesca illegale e non regolamentata, un fenomeno che colpisce anche il Mediterraneo e che sfugge ai controlli a causa della mancanza di governance sulle acque internazionali.
Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia, va al punto: “È urgente rafforzare la pesca artigianale, quella che rispetta gli habitat e non devasta i fondali con lo strascico. Chi rallenta questo percorso, mina la credibilità delle istituzioni”. Sotto accusa non c’è solo la lentezza politica, ma una visione miope che continua a ignorare il valore sistemico degli oceani: assorbono circa il 25% della CO₂ emessa ogni anno, producono più della metà dell’ossigeno che respiriamo, regolano il clima e custodiscono il 90% della biodiversità del pianeta.
Dai fondali alle spiagge: serve una visione integrata
Il problema, però, non si ferma all’alto mare. La fascia costiera – dove vive il 40% della popolazione mondiale entro 100 chilometri dal mare – è altrettanto esposta alla crisi climatica. L’innalzamento del livello del mare minaccia 600 milioni di persone che abitano sotto i 10 metri di altitudine. Serve una pianificazione integrata, che unisca la difesa ambientale alla resilienza urbana. È con questo spirito che nasce la “Coalizione Ocean Rise & Coastal Resilience”, guidata dal sindaco di Nizza Christian Estrosi, per unire le città costiere nella lotta contro il cambiamento climatico.
Un esempio virtuoso, ma isolato. Senza un quadro normativo internazionale forte – come il Trattato BBNJ, ancora fermo ai blocchi di partenza – anche le iniziative più meritevoli rischiano di restare episodi isolati.