30 Giugno 2025
/ 30.06.2025

Clima, l’onda populista mette a rischio la sicurezza globale

Mentre alcuni Paesi ricchi si tirano indietro rispetto alle promesse fatte sul clima, i Paesi meno sviluppati del mondo avvertono che "ogni frazione di grado è importante"

Mentre giovedì si sono chiusi i colloqui delle Nazioni Unite sul clima a Bonn, in Germania, la comunità internazionale ha assistito con preoccupazione a un confronto segnato da tensioni e ritardi, che rischiano di compromettere la lotta contro l’emergenza climatica. I Paesi meno sviluppati e le nazioni insulari, da sempre i più vulnerabili agli impatti del riscaldamento globale, si sono trovati a fronteggiare non solo le conseguenze climatiche già drammatiche, ma anche una crescente mancanza di solidarietà da parte delle nazioni più ricche. 

Denunciando la mancanza di progressi nei colloqui annuali, una coalizione di oltre 200 gruppi della società civile e indigeni ha consegnato una lettera dove delineano una riforma delle politiche ambientali internazionali. Tra i punti più rilevanti c’è l’esplicita richiesta di porre fine alla presenza, da loro definita “presa di potere” delle aziende private sui colloqui. Inoltre, nella lettera si chiede di garantire maggiore trasparenza nei negoziati e di porre i diritti umani al centro delle politiche e delle azioni in materia di clima.

Una crisi climatica che si fa sempre più urgente

Come ha sottolineato Evans Njewa, presidente del gruppo delle Nazioni Unite sui Paesi meno sviluppati, il mondo si sta allontanando dall’obiettivo fondamentale di contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, soglia oltre la quale gli impatti ambientali e sociali diventano catastrofici. Il 2024 ha segnato infatti il primo anno intero in cui la temperatura media globale ha superato questa soglia, un fatto che gli scienziati definiscono una vera e propria emergenza climatica.

I danni sono già evidenti: cicloni devastanti nel sud-est africano, alluvioni nelle regioni montuose dell’Asia e siccità che minacciano i mezzi di sussistenza di milioni di persone in Africa centrale. Queste tragedie climatiche mettono in evidenza come i Paesi che hanno contribuito meno all’inquinamento globale stiano pagando il prezzo più alto.

Il ruolo controverso dei Paesi ricchi

Nel frattempo, alcuni Paesi industrializzati stanno facendo marcia indietro rispetto agli impegni presi. Gli Stati Uniti, il maggior emettitore storico di gas serra, vedono un ridimensionamento delle politiche climatiche con la nuova amministrazione repubblicana che punta a incrementare investimenti nei combustibili fossili. La Nuova Zelanda ha abbandonato alleanze internazionali volte a limitare l’estrazione di petrolio e gas, mentre in Europa partiti conservatori e nazionalisti rallentano leggi chiave per la tutela delle foreste tropicali e i finanziamenti per la lotta al cambiamento climatico rischiano di essere ridotti in favore della spesa militare.

Questi sviluppi politici compromettono la capacità della comunità internazionale di raggiungere obiettivi climatici ambiziosi, alimentando la frustrazione di molti Paesi vulnerabili e della società civile organizzata, che denuncia la crescente influenza delle lobby fossili sui negoziati Onu.

Finanziamenti e monitoraggio: una partita ancora aperta

Tra i temi più spinosi dei colloqui di Bonn c’è stato il finanziamento della lotta al cambiamento climatico. L’Accordo di Parigi ha previsto un impegno a mobilitare 1,3 trilioni di dollari per sostenere i Paesi più vulnerabili, ma la strada per raccogliere e gestire efficacemente queste risorse è irta di ostacoli. I Paesi in via di sviluppo chiedono meccanismi più trasparenti e dedicati, capaci di garantire fondi per l’adattamento e per i danni già subiti. Dall’altro lato, alcuni Stati ricchi preferiscono usare strumenti già esistenti, meno specifici e meno efficaci.

Tuttavia, alcuni passi avanti sono stati fatti: è stato definito un nuovo quadro di trasparenza che permette di rendicontare meglio gli impegni nazionali e l’efficacia delle azioni. Ad esempio, Panama ha dimostrato di essere un “pozzo di carbonio netto”, assorbendo più CO₂ di quanta ne emetta, un segnale positivo per il ruolo degli ecosistemi nella mitigazione climatica.

Le sfide politiche nel contesto globale

Il contesto politico globale resta tuttavia molto difficile. In Europa, l’influenza crescente di forze conservatrici e nazionaliste rallenta l’attuazione di misure ambientali e la volontà di aumentare gli obiettivi di riduzione delle emissioni. Negli Stati Uniti, la polarizzazione politica mette a rischio l’eredità climatica delle amministrazioni precedenti. Questi fattori insieme minacciano di far deragliare gli sforzi globali a meno di cinque anni dalla COP30, prevista a novembre in Brasile.

Nonostante tutto, Simon Stiell, segretario esecutivo dell’UNFCCC, invita a ricordare i progressi fatti con l’Accordo di Parigi, sottolineando come senza quel trattato il mondo sarebbe destinato a un riscaldamento catastrofico di circa 5°C, mentre ora si sta andando verso i 3°C, una riduzione significativa, anche se ancora insufficiente.

Appello all’azione urgente e coordinata

La decima ricorrenza dell’Accordo di Parigi è un momento di riflessione e di mobilitazione. L’emergenza climatica è sotto gli occhi di tutti, con eventi estremi sempre più frequenti e devastanti. La sfida è superare divisioni politiche e interessi economici a breve termine per costruire una risposta globale efficace, equa e giusta.

Il futuro di milioni di persone dipende da una cooperazione internazionale solida, dal finanziamento concreto delle misure di adattamento e mitigazione e dalla volontà politica di rispettare gli impegni assunti. Come hanno ricordato Evans Njewa e di Anne Rasmussen, rappresentanti dei Paesi più vulnerabili, è il momento di agire, perché ogni frazione di grado di riscaldamento in più significa vite perse e crisi umanitarie peggiori.

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