23 Luglio 2025
/ 21.07.2025

Manfredonia, l’arcivescovo contro gli incendiari: “Per questi reati c’è la scomunica da 886 anni”

L’arcivescovo di Manfredonia condanna con parole durissime i responsabili del rogo che ha incenerito 800 ettari dell’oasi del Lago Salso,. Ma la posizione della Chiesa è netta dal Concilio lateranense del 1139: “Chiunque, dopo la promulgazione del nostro divieto, con intenzione malvagia per odio o per vendetta, avrà causato un incendio, o avrà incaricato altri di provocarlo, o avrà prestato consapevolmente consiglio o aiuto agli incendiari sia scomunicato”

“Va denunciato con chiarezza che i roghi sono stati provocati da mani fomentatrici di odio verso il Creato e verso la popolazione: si tratta di gesti criminali, motivati da una pura logica criminale”. Sono le durissime parole dell’arcivescovo di Manfredonia, padre Franco Moscone per commentare il devastante incendio che il 18 e 19 luglio ha incenerito l’oasi del Lago Salso, ambiente naturale tra i più belli e delicati della Puglia, devastando 800 ettari. 

Non è la prima volta che un vescovo interviene per condannare gli incendiari e le loro azioni criminali. Nell’estate del 2021 in occasione degli incendi che distrussero foreste millenarie in Aspromonte, prese posizione con una nota ufficiale la Conferenza episcopale calabra scrivendo di “mano assassina di piromani e di gente che sfrutta le temperature più elevate” per “riaffermare con la violenza del fuoco un dominio sul territorio che si vuole sottratto alla legalità e piegato ad interessi di parte”. Un incendio, proseguiva la nota, che “oltre a depredare il corpo vivo della Madre Terra, distrugge migliaia di specie vegetali, rischia di far scomparire per sempre alcune specie animali, dilava il territorio e i corsi d’acqua”.

Il Concilio lateranense del 1139

Lo stesso anno il vescovo di Cefalù, Giuseppe Marciante, aveva parlato di “scomunica” per gli incendiari che avevano devastato le Madonie. “Chi si macchia di tale reato si pone fuori dalla comunione della Chiesa in quanto ha commesso un crimine contro il Creatore mettendo a rischio la vita delle persone e la distruzione del bene ambientale prezioso per la sopravvivenza di tutte le sue creature”. In realtà la scomunica per gli incendiari esiste già da 886 anni, perché l’incendio è un “flagello devastatore e pernicioso” che “supera ogni altra forma di rapina”. Dunque chi lo provoca “sia scomunicato”. Storia di nove secoli fa. Lo stabiliva il “Canone 18” del Concilio lateranense convocato nel 1139 da papa Innocenzo II. “Riproviamo con tutte le nostre forze – si legge nel purtroppo attualissimo documento – e proibiamo con l’autorità di Dio e dei beati apostoli Pietro e Paolo, la pessima malvagità devastatrice e abominevole di appiccare incendi”. Un’analisi modernissima. “Quanto sia dannosa, poi, al popolo di Dio, e quanto pregiudizio porti alle anime e ai corpi, nessuno lo ignora. Bisogna quindi opporsi e fare di tutto per sradicare e estirpare per la salvezza del popolo una tale calamità”. 

L’obbligo del risarcimento

Poi la netta condanna. “Perciò chiunque, dopo la promulgazione del nostro divieto, con intenzione malvagia per odio o per vendetta, avrà causato un incendio, o avrà incaricato altri di provocarlo, o avrà prestato consapevolmente consiglio o aiuto agli incendiari sia scomunicato. Se poi l’incendiario troverà la morte, sia privato della cristiana sepoltura. Né venga assolto, se prima non avrà risarcito, secondo le sue possibilità, il danno arrecato e non avrà giurato di non causare più alcun incendio”. 

Condanna anch’essa modernissima, basti pensare all’obbligo, previsto da alcune leggi, di ripristinare i luoghi devastati da vari inquinamenti. Ma non definitiva. Anche per l’incendiario era previsto il perdono ma a precise condizioni. “Per penitenza gli si imporrà di stare a Gerusalemme o in Spagna a servizio di Dio per un anno intero”. Una sorta di giustizia riparativa. Non manca un avvertimento a chi dovrebbe controllare. “Se poi un arcivescovo o un vescovo avesse mitigato il rigore di questo canone, dovrà riparare il danno, e per un anno dovrà astenersi dall’esercitare il ministero episcopale”.

Anche questo ci riporta a tante attuali responsabilità di amministratori e controllori. Responsabilità che aveva capito bene Rosario Livatino, il giovane magistrato ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990 e proclamato beato il 9 maggio 2021. Più di 40 anni fa aveva indagato, colpendo gli incendiari. E come allora col sospetto di interessi economici illegali. Ma anche inadempienze delle istituzioni, proprio quelle previste nella scomunica di 900 anni fa. Nel 2021, anno terribile per gli incendi, era andato in fumo in contrada Galluzzo di Licata un bosco di pino d’Aleppo e pino domestico di più di 50 ettari. Un disastro che si ripeteva. Si trattava, infatti, di un rimboschimento sul quale aveva indagato a metà degli anni ’80 proprio Livatino per un incendio doloso. 

Le indagini a Licata

Me lo ha ricordato Domenico (Mimmo) Bruno, ex commissario del Corpo forestale regionale siciliano, per anni collaboratore del magistrato in tante indagini in materia ambientale. E fu proprio quell’incendio a farli conoscere. “Avevo mandato in Tribunale una notizia di reato relativa a un incendio doloso di un rimboschimento a Licata, zona a forte densità mafiosa. Invece di mettere le piante avevano messo dei “cippi”, dei semplici ramoscelli. Bisognava verificare il lavoro, ma prima del controllo tutto era stato bruciato, per far sparire le prove”. Questa vicenda interessò subito Livatino, curioso e attento. “Mi chiamò per fare delle ulteriori indagini, perché sospettava una complicità tra la ditta che aveva eseguito il rimboschimento e funzionari regionali. Così indagò il direttore dei lavori e un dipendente regionale”. 

Ora Mimmo ricordando il passato prova ad analizzare il presente. “Il dottor Livatino era molto interessato agli incendi boschivi. Erano tanti, troppi. E non scoppiavano a caso. Lui scavava in quelle vicende. Non guardando solo a chi appiccava le fiamme, ma anche a chi c’era dietro”. Il giovane magistrato aveva capito importanza e retroscena di quei fatti e ci si era impegnato. Voleva conoscere tutto. “Così gli portai alcuni volumi con le leggi regionali sugli incendi. Studiava molto, non si fidava e voleva verificare di persona”. Anche perché il mondo della gestione forestale e del servizio antincendio era inquinatissimo. E Livatino ci lavorò a lungo. “C’era un piano regionale anti-incendi che nessuno attuava – è il ricordo del forestale – proprio come oggi. Ciò rende più pericolose le operazioni di spegnimento da terra e favorisce il propagarsi degli incendi”.

L’assassinio dei forestali

Proprio i fatti su cui indagava Livatino. “Non c’era prevenzione e la qualifica del personale era clientelare. I ranghi dei forestali erano pieni di mafiosi e alcuni di loro furono ammazzati. C’era manovalanza spicciola; dietro però si nascondevano interessi speculativi e politico/economici, a partire dall’abusivismo edilizio. Il dottor Livatino l’aveva capito benissimo”. E, infatti, il magistrato fu molto attivo nel combattere l’abusivismo edilizio, scoprendo gli interessi mafiosi. Uno stretto intreccio con gli incendi, oggi come allora.

 “Era davvero un magistrato molto attento a queste tematiche. Era unico. Andava oltre il suo dovere. Era profondo, mi colpì subito l’attenzione a quei principi di amore per la terra che ho ritrovato in Papa Francesco. Parlava della ‘nostra madre terra’ e diceva: ‘Dio ci ha fatto questo dono e noi lo trascuriamo’. Davvero aveva una grande passione per questo tema. E addirittura andava in giro per conoscere la natura del nostro territorio”.  Lui beatificato, gli incendiari scomunicati.

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