Con una decisione storica, destinata a cambiare per sempre il panorama della giustizia ambientale in Italia, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che i giudici italiani possono pronunciarsi su cause riguardanti i danni provocati dal cambiamento climatico. È la prima volta che la Suprema Corte si esprime in maniera così chiara su una causa climatica e il suo verdetto segna un punto di svolta nella possibilità, anche nel nostro Paese, di ottenere quella che viene ormai riconosciuta a livello internazionale come giustizia climatica.
A portare il caso davanti alla Cassazione sono stati Greenpeace Italia, ReCommon e dodici cittadine e cittadini, che nel 2023 avevano promosso una causa civile contro Eni, Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) e il ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef). L’accusa: aver contribuito in modo significativo, e con piena consapevolezza, alla crisi climatica in corso. Secondo i ricorrenti, Eni ha continuato a investire massicciamente nei combustibili fossili nonostante gli impegni previsti dall’Accordo di Parigi, mentre Cdp e Mef, in quanto azionisti pubblici, avrebbero mantenuto un’influenza dominante senza intervenire.
Una sentenza con un grande impatto
I convenuti avevano sollevato un’eccezione preliminare: per loro, la giustizia ordinaria non era competente a giudicare una causa climatica, ritenuta materia politica. Ma la Cassazione, riunitasi lo scorso 18 febbraio e pubblicando l’ordinanza il 21 luglio, ha risposto con fermezza: sì, in Italia è possibile agire legalmente contro chi danneggia il clima.
La sentenza è destinata ad avere un impatto profondo. In primo luogo, permette alla causa intentata contro Eni, Cdp e Mef di proseguire nel merito davanti al Tribunale di Roma. Ma soprattutto apre la strada ad altre azioni simili: i giudici italiani, afferma la Suprema Corte, possono pronunciarsi non solo quando i danni climatici si verificano in Italia, ma anche quando le decisioni strategiche – come quelle sulle emissioni – sono prese da aziende con sede nel nostro Paese, anche se le emissioni si producono all’estero.
Un altro punto chiave chiarito dalla Cassazione è che le cause climatiche non rappresentano un’invasione del campo politico. La tutela dei diritti umani fondamentali – salute, vita, sicurezza – minacciati dalla crisi climatica, ha spiegato la Corte, è superiore a qualsiasi prerogativa aziendale o politica. E proprio questo aspetto proietta la decisione italiana nel solco delle più importanti sentenze europee in materia, come quella olandese contro Shell o le recenti pronunce della Corte europea dei diritti umani.
Ora è possibile avere giustizia climatica
“Questa sentenza storica dice chiaramente che anche in Italia si può avere giustizia climatica”, commentano Greenpeace Italia e ReCommon. “Nessuno, nemmeno un colosso come Eni, può più sottrarsi alle proprie responsabilità. I giudici potranno finalmente esaminare il merito della nostra causa: chi inquina e contribuisce alla crisi climatica deve rispondere delle proprie azioni”.
A questo punto, la palla passa di nuovo alla magistratura che dovrà valutare se le condotte contestate a Eni abbiano causato un danno concreto e misurabile ai cittadini e all’ambiente italiano.