“Non dobbiamo sorprenderci o minimizzare, perché eventi come quello visto in Romagna erano previsti e i nostri studi ci dicono che senza una riduzione dei cambiamenti climatici in atto dobbiamo attendercene altri e anche più intensi. Bisogna agire”. Così Antonello Pasini, climatologo tra i più autorevoli, primo ricercatore del Cnr, docente di Fisica del clima all’università di Roma Tre e autore, accanto a decine di lavori scientifici” anche di testi divulgativi come “L’equazione dei disatri. Cambiamento climatici su territori fragili” (Codice Edizioni) che affrontano proprio il tema degli eventi estremi
Cosa è successo esattamente in Romagna?
“L’afflusso di aria fresca da nord – nord ovest ha trovato una superfice del mar Adriatico ancora molto calda, attorno ai 28 gradi, e si è andata a ‘imbucare’ in quella sorta di v nella quale le colline romagnole si avvicinano al mare. La perturbazione ha acquisito energia e vapore acqueo dal mare caldo, e la presenza di colline vicino al mare ha determinato un innalzamento della massa d’aria, che quando si innalza in maniera forzata condensa più facilmente e crea più facilmente nubi temporalesche, i cumuli nembi, molto alte. Il combinato disposto ha creato un temporale autorigenerante che ha fatto i danni che abbiamo visto”.
La gravità del fenomeno è colpa del cambiamento climatico anche se il mare è a temperature alte ma non record?
“C’è certamente lo zampino, uno zampino pesante, del cambiamento climatico. E’ vero che il mare è a temperature non record ma è comunque a valori molto alti, parecchio superiori alle medie che si riscontravano nei decenni precedenti, valori che sono un segno del cambiamento climatico e sufficienti a causare quanto si è visto. Il fatto che l’evento ci sia stato proprio quando non siamo in un massimo di temperatura del mare Adriatico è anzi particolarmente significativo. Cosa sarebbe successo se il mare fosse stato un grado più caldo?”.
Qualche anno fa voi del Cnr avete fatto uno studio in tal senso.
“Nel 2017 abbiamo pubblicato su Scientific Reports un lavoro nel quale abbiamo analizzato un tornado che si verificò nella zona di Taranto e che fu molto distruttivo. Abbiamo effettuato un lavoro di modellistica su dati reali, andando a modificare la temperatura del mar Jonio riducendola di un grado rispetto a quella osservata. Ebbene, abbiamo visto che con un mare meno caldo la supercella non si sarebbe formata e quindi il tornado non si sarebbe sviluppato. Di contro, abbiamo riscontrato che aumentando la temperatura del mare di un grado rispetto al valore reale, quindi a un livello atteso a fine secolo, il tornado sarebbe stato molto, molto più intenso. La ricerca, pur se su un caso singolo, ha mostrato che nell’area del Mediterraneo c’è un forte rapporto tra eventi estremi e temperatura del mare”.
L’Italia – dalla costa genovese alla Versilia, dalla costiera amalfitana a tratti della Calabria – è piena di zone nelle quali colline o montagne si trovano in prossimità delle coste, come e più che in Romagna. Questo significa che queste zone dovrebbero essere definiti “hotspot” per eventi estremi?
“Assolutamente sì in tutte queste zone e in tutte le altre zone con caratteristiche simili. Dobbiamo mettere a disposizione della popolazione previsioni il più possibile localizzate e dobbiamo anche deciderci ad utilizzare gli strumenti moderni che ci dà la tecnologia, penso in particolare agli alert sui cellulari, strumento che la Protezione Civile ha già testato credo con successo, e che potrebbe essere usato con regolarità per ridurre l’impatto sulla popolazione di questi eventi, rendendola pienamente consapevole. Poi certo, bisogna fare adattamento”.
Che concretamente significa….
“Dobbiamo ripensare le nostre città alla luce di questi eventi estremi. Adeguare il reticolo idrografico, prevedere casse di espansione anche per i corsi d’acqua a regime torrentizio e non solo per i fiumi è diventato essenziale. E non va fatto con il cemento ma usando il più possibile sistemi naturali. Bisogna adeguare tombini e fognature e anche interrogarci sul fatto che essenze come i pini, specialmente se isolate, non sono più adatte a questa situazione climatica. Il che non significa togliere gli alberi dalle città, ma invece mettere più alberi, di essenze compatibili con il territorio e il clima mutato. Un bosco è più resiliente di un albero isolato, e a noi servono foreste urbane, che da un lato mitigano le ondate di calore, dall’altro assorbono una parte della pioggia violenta, riducendo il ruscellamento. L’adattamento al cambiamento climatico è essenziale, ma ovviamente da solo non basta, parallelamente serve la mitigazione, cioè la riduzione delle emissioni, senza la quale saremo sempre alla rincorsa di un clima che ci porrà sempre nuove sfide. Come ho scritto nel mio ultimo libro, “La sfida climatica”, bisogna gestire l’inevitabile ma evitare l’ingestibile. Bisogna fare le due cose assieme, adattarsi ma anche mitigare”.
Come mai a suo avviso, nonostante il cambiamento climatico mostri concretamente i suoi effetti anche nel nostro territorio sempre più gente minimizza e spesso sembra essere insofferente al punto da rifugiarsi nel negazionismo?
“Si minimizza per convincersi che non serve una mobilitazione per risolvere il problema. Ci si basa sui ricordi di quando si era giovani per dire che certi eventi dopotutto ci sono sempre stati. Ovviamente, dati alla mano, non è vero. C’erano, ma non così intensi e frequenti. Ma negare il problema, un problema così grande e angosciante, tranquillizza alcuni”.
Ma la scienza…
“La scienza è vista come lontana. Non ci si basa sui dati scientifici perché non si crede alla scienza, non si capisce che un dato scientifico è un dato validato e affidabile e ci aiuta ad avere una percezione corretta della realtà. Non si capisce che la scienza è al nostro servizio. E questo accade perché in questo Paese c’è una carenza di cultura scientifica”.