L’Unione europea sta attraversando una fase di incertezza che tocca il cuore della sua identità politica: la leadership nella lotta al cambiamento climatico. Il banco di prova è l’obiettivo di riduzione delle emissioni al 2040, un traguardo cruciale per tenere viva la traiettoria verso la neutralità climatica entro metà secolo. Ma i Ventisette, per ora, non riescono a parlare con una sola voce.
La Commissione europea ha messo sul tavolo un obiettivo ambizioso: tagliare le emissioni di gas serra del 90% rispetto ai livelli del 1990. Una soglia alta, che dovrebbe guidare investimenti e politiche nei prossimi quindici anni, ma che divide profondamente gli Stati membri. Paesi come Francia, Germania, Italia e Polonia hanno chiesto più tempo per arrivare a un accordo, rinviando una decisione che inizialmente si sperava di raggiungere già a settembre. La presidenza danese dell’Ue, che puntava a un’intesa rapida tra i ministri dell’Ambiente, ha dovuto fare un passo indietro. Ora la nuova scadenza è fissata a fine anno, con il rischio concreto che le discussioni vengano spostate a un vertice dei capi di Stato e di governo.
Le difficoltà non nascono solo dalla cifra in sé, quel 90% che ad alcuni sembra irraggiungibile. Sul tavolo ci sono divergenze di metodo e di merito: c’è chi chiede maggiore chiarezza su come calcolare le riduzioni, chi vuole che si tenga conto del ruolo dell’energia nucleare, chi spinge per scorporare l’obiettivo in traguardi intermedi. La Commissione ha tentato di trovare un compromesso introducendo margini di flessibilità, come la possibilità di usare crediti di carbonio internazionali fino al 3%, ma non è bastato.
Il rischio, se non si arriverà a un accordo, è che l’Ue si presenti alla COP30 di novembre in Brasile, a Belem, senza una posizione chiara da difendere. Sarebbe un colpo all’immagine di leadership ambientale che l’Unione ha costruito negli ultimi decenni e un segnale preoccupante per gli investitori, che guardano alle regole europee come bussola per decidere dove e come allocare risorse nella transizione verde. Un ritardo prolungato, inoltre, rischia di aprire crepe interne sempre più difficili da ricomporre: i Paesi che temono costi eccessivi potrebbero frenare sulle politiche nazionali, mentre quelli più ambiziosi potrebbero andare avanti da soli, minando la coesione del blocco.
Al di là delle schermaglie diplomatiche, il cuore del problema resta lo stesso: trovare un equilibrio tra ambizione climatica e sostenibilità economica. Senza una cornice chiara, la transizione rischia di diventare un terreno di incertezza che pesa tanto sulle industrie quanto sulle comunità locali. Per l’Europa, che ha costruito buona parte della sua credibilità internazionale sulla capacità di fare da apripista nella lotta al riscaldamento globale, il tempo stringe. La decisione non è più solo un atto tecnico: è una prova di coerenza politica e di visione. Perdere questa battaglia significherebbe lasciare in mano a Pechino la leadership incontrastata della rivoluzione tecnologica in atto.