C’è un rischio che si corre nella narrativa delle città sostenibili. Ed è lo stesso, sempre: cadere nella trappola delle parole d’ordine. Smart city, resilienza, decarbonizzazione, mobilità dolce. Concetti affascinanti, certo, ma spesso appesi più allo storytelling politico che a dati misurabili. Un tema, questo, che sarà anche al centro di uno dei dibattiti al Salone della CSR che si terrà dall’8 al 10 ottobre all’università Bocconi di Milano.
Ma come si fa, allora, a capire se una città sta davvero cambiando paradigma?
“Il concetto di città sostenibile non è mai stato statico”, chiarisce subito Edoardo Croci, docente alla Bocconi ed esperto di politiche ambientali urbane. “negli anni si sono succeduti diversi paradigmi: prima la città compatta, con usi misti del suolo, dove ci si muove facilmente senza auto. Poi la città verde, attenta alla salute e alla vivibilità. Quindi la città smart, che sfrutta le tecnologie più avanzate per i suoi servizi. E ancora la città resiliente, capace di adattarsi ai cambiamenti climatici. Infine, l’ultimo concetto formalizzato da Eduardo Moreno è quello della cosiddetta “città dei 15 minuti”, applicata per esempio a Parigi. L’idea è quella di avere servizi importanti che si possano raggiungere in un breve tempo e in maniera sostenibile”.
La città vibrante
Dunque, parlare di città sostenibile significa parlare di molte dimensioni, non solo fisiche ma anche sociali: “Oggi i requisiti fondamentali sono quattro: la compattezza, la connessione, l’inclusione e la resilienza. Ma negli ultimi anni si è aggiunto anche il concetto di ‘città vibrante’: attrattiva, capace di generare energie positive e trattenere le nuove generazioni”. Insomma, un luogo che non solo funzioni, ma che faccia venir voglia di viverci.
Ma allora, se la sostenibilità non si misura solo a colpi di slogan, quali strumenti concreti servono? “Non esiste un unico sistema di misurazione, ci sono diversi framework – spiega Croci – Il più usato è l’Agenda 2030, che tra i suoi 17 goal ne ha uno che riguarda le città e le comunità sostenibili, ossia l’undicesimo”.
Per comprendere più a fondo, facciamo un passo indietro. Come ricorda Croci, ogni goal dell’Agenda 2030 è accompagnato da target, che sono obiettivi più specifici, e ciascuno è misurabile con degli indicatori specifici. Ad esempio, nel caso del Goal 11, si spazia dall’accessibilità ai trasporti passando, dalla disponibilità di spazi verdi alla resilienza ai disastri naturali. Croci fa un esempio molto semplice: “Un indicatore concreto riguarda il trasporto pubblico: quanti cittadini possono raggiungere una fermata entro una certa distanza?”. Ecco, questo è un dato che ci dice davvero qualcosa sulla qualità urbana. Insomma, per capire se una città sta diventando davvero sostenibile non basta osservare quante piste ciclabili sono state inaugurate, ma è necessario capire se quelle piste servono davvero a chi deve spostarsi, se sono integrate con bus, metro e altri mezzi pubblici, se migliorano l’accessibilità per tutti.
Insomma, la trasformazione urbana ha scale diverse: “Alcuni cambiamenti – sottolinea Croci – avvengono in decenni, come l’uso del suolo che dipende dalla pianificazione urbanistica”. E prosegue: “Altri sono più rapidi, come i servizi e le attività private. Su tutti questi aspetti intervengono politiche su diversi livelli, da quello europeo a quello locale. Il livello europeo è quello che guida, perché è a questo livello che vengono definiti gli obiettivi di medio e lungo termine, che devono essere rispettati a cascata da governi nazionali e locali. Tra l’altro l’Europa da qualche anno ha iniziato a occuparsi direttamente anche di città. Oggi esistono due missioni strategiche che vedono azioni e strumenti integrate: 100 città climate-neutral e l’adattamento climatico. Sono due missioni in cui la Commissione europea cerca di coinvolgere anche i governi cittadini”.
Sostenibilità tra ispirazione, politica e giustizia sociale
Quando si parla di buone pratiche, il pensiero corre subito a Copenaghen e ad Amsterdam, cioè alla mobilità ciclabile. “Ma arrivarci non è stato semplice: hanno dovuto costruire infrastrutture sicure, parcheggi per bici vicino alle stazioni e hanno lavorato tanto sulla consapevolezza civica. Ogni step è stato frutto di una strategia di lungo periodo”.
E l’Italia? Non è solo osservatrice, ma anche fonte di ispirazione. Il modello del road pricing di Milano – la congestion charge –, per esempio, è stato guardato con attenzione anche da altre città europee. In breve, come ha sottolineato Croci, “ogni città ha qualcosa da insegnare: chi nella pedonalizzazione, chi nella mobilità dolce, chi nella gestione del verde”.
Insomma, si tratta di una rete contornata da programmi-ombrello a livello europeo, come il Patto dei sindaci, che mette in continua interazione numerosissime città europee.
Di fronte a questi grandi cambiamenti viene però spontaneo chiedersi quanto pesi la resistenza da parte di alcuni settori della società. In realtà, racconta Croci, poco: “La resistenza c’è sempre stata, anche a Copenaghen o ad Amsterdam. La differenza la fa la capacità dell’amministrazione pubblica di avere una visione a lungo termine, spiegare i benefici e portare avanti le azioni, adeguando i piani e ascoltando i cittadini. Il consenso su questi progetti arriva durante e dopo, quasi mai prima”. E porta un esempio sorprendente: a Curitiba, in Brasile, cinquant’anni fa il sindaco decise di pedonalizzare il centro. Sembrava un’idea folle, eppure oggi è un modello.
All’intero di questo discorso, c’è un ulteriore tema: una città riqualificata, sostenibile, diventa inevitabilmente una città più cara, più costosa. E allora come evitare che il cambiamento diventi sinonimo di esclusione sociale? “Questo è un problema reale con cui è necessario confrontarsi – ammette Croci – Una città più vivibile attrae domanda, e dunque aumenta il costo della vita. Ma questo aspetto di gentrificazione e creazione di diseguaglianze può essere governato”.
Ad esempio, una soluzione potrebbe essere quella di mantenere delle quote di housing sociale in caso di edifici di nuova costruzione; oppure l’introduzione di prezzi calmierati o far sì che le comunità che già vivono in quell’area possano continuare a farlo. “In Italia questo è più semplice, perché la maggior parte degli abitanti sono proprietari, quindi il fenomeno di espulsione è meno drammatico rispetto agli Stati Uniti”. Ma la versa sfida, dice Croci, è quella di evitare i quartieri-ghetto di lusso e diffondere il cambiamento anche in periferia: “Se il cambiamento non riguarda solo il centro, ma è diffuso, diventa molto più governabile”.
L’idea è chiara: la città sostenibile è un processo fatto di visione politica, pianificazione a lungo termine, investimenti e indicatori concreti che permettono di misurare i progressi. E, come ha ricordato Croci, non si tratta solo di infrastrutture o tecnologie, ma anche di creare quell’energia che fa sì che una città non solo sia vivibile, ma anche desiderabile. Perché alla fine, una città sostenibile non è solo quella che riduce le emissioni, ma quella che riesce ad attrarre, includere, far crescere. Insomma, un posto in cui vorremmo restare.