19 Ottobre 2025
/ 30.09.2025

Scappare dal clima, l’esodo dei rifugiati climatici

Chi sono i rifugiati climatici e perché la questione ci riguarda da vicino

Alla settimana del clima a New York sono stati il convitato di pietra. A metà secolo ci saranno fino a 200 milioni di migranti climatici, persone costrette a spostarsi perché non hanno più una casa. E più si ritardano le azioni di mitigazione della crisi climatica più il problema si aggrava, creando un disastro umanitario e una pericolosa pressione alle porte dell’Europa.  Non a caso un film spagnolo imperniato su questo tema, Mariposas Negras, ha vinto la terza edizione di Cinema in Verde, all’Orto Botanico di Roma.

Ma chi sono, dunque, i migranti climatici? L’Organizzazione internazionale per le migrazioni li definisce come individui che, in larga parte contro la loro volontà, sono costretti ad abbandonare, temporaneamente o definitivamente, il luogo in cui vivono a causa di eventi ambientali estremi o di un degrado progressivo del territorio. Una diaspora, per certi versi, meno visibile, perché sono sì milioni di persone, ma che, spesso, non attraversano i confini nazionali, ma si spostano all’interno del proprio Paese, verso città o regioni meno colpite.

Le ragioni sono molteplici. Alcune improvvise, come uragani, alluvioni e incendi che, in poche ore, distruggono villaggi e raccolti. Altre, invece, sono lente, quasi impercettibili. Come la desertificazione, che avanza in regioni agricole un tempo fertili, o l’innalzamento del livello del mare, che corrode le coste e rende invivibili isole e comunità costiere. Circostanze rese più drammatiche dai risvolti sociali: perdita di lavoro, insicurezza alimentare, tensioni per l’accesso a risorse che scarseggiano.

Insomma, non hanno ancora uno status giuridico internazionale riconosciuto, ma esistono, e sono sempre più numerosi. A differenza di altre categorie, come ad esempio i rifugiati di guerra o i migranti economici, queste persone sono spinte da un fattore meno visibile ma altrettanto subdolo: il cambiamento climatico. Infatti, dietro a ondate di calore insostenibili, desertificazione, innalzamento dei mari, cicloni e inondazioni ci sono vite umane che cambiano, per sempre.

I numeri di un esodo silenzioso

Per citare qualche numero: secondo il rapporto “Groundswell” della Banca Mondiale, entro il 2050 potrebbero essere fino a 216milioni le persone costrette a spostarsi all’interno del proprio Paese per ragioni climatiche, soprattutto in sei aree particolarmente vulnerabili. In particolare, il report fa riferimento all’Africa subsahariana, all’Asia dell’Est e del Pacifico, l’Asia meridionale, il Nord Africa, l’America latina e l’Asia Centrale.

Dunque, si tratta di una realtà lontana da noi? Non proprio, anzi. L’Europa, per non essendo tra le prime “vittime” come altre regioni del pianeta, non è immune. E anche il nostro Paese si trova al centro di questa dinamica: da un lato come terra di approdo, dall’altro come territorio vulnerabile. L’estate del 2023, per esempio, ha mostrato con chiarezza i limiti di un sistema non preparato a fronteggiare ondate di calore eccezionali, alluvioni improvvise e frane. Insomma, non è un problema soltanto altrove: l’erosione delle coste, la perdita di terreni, i danni alle coltivazioni e alle infrastrutture ci riguardano da vicino.

Già oggi alcune comunità italiane, soprattutto in aree rurali o montane, sono costrette a spostarsi verso le città più attrezzate per affrontare i disastri climatici. Allo stesso tempo, i flussi in arrivo dal Mediterraneo sono sempre più influenzati dai fattori climatici, soprattutto da quelle aree dove siccità e desertificazione mettono in ginocchio le economie locali basate su agricoltura e pastorizia. 

In altri termini, siamo di fronte a un fenomeno subdolo, che raramente entra nel dibattito pubblico, ma che rappresenta un problema sempre più concreto. E a livello normativo la strada è ancora in salita. Nessuno Stato membro dell’Unione europea – Italia compresa – ha introdotto una legislazione specifica che riconosca lo status di migrante climatico. Così, chi fugge da una catastrofe ambientale, è costretto a fare affidamento a strumenti giuridici presenti per altri contesti, come permessi di protezione umanitaria e misure emergenziali. Ma nei casi più drammatici, questo vuoto lascia queste persone senza tutele chiare. E, nonostante l’Ue abbia varato piani di adattamento e resilienza, siamo ancora lontani da strategie integrate.

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