Il prossimo 10 ottobre, in occasione del Mazingira Day – la giornata nazionale dedicata all’ambiente – il governo del Kenia ha annunciato la messa a dimora di 100 milioni di alberi in sole 24 ore. L’iniziativa, promossa dai ministeri dell’Ambiente e delle Foreste, si inserisce nell’ambizioso programma lanciato dal presidente William Ruto, che punta a piantare 15 miliardi di alberi entro il 2032. Non si tratta solo di un gesto simbolico: dei 100 milioni previsti, oltre 70 milioni saranno alberi da frutto, distribuiti soprattutto nelle scuole, con circa duemila piantine per istituto. L’obiettivo dichiarato è duplice: combattere il cambiamento climatico e creare nuove opportunità economiche per le comunità locali, legando la riforestazione a sicurezza alimentare e reddito.
Ruto, intervenendo nelle scorse settimane in un’intervista a France 24, ha respinto la linea negazionista espressa da Donald Trump all’ONU, ribadendo che “non credo che nessuno, per quanto influente, potente o grande, possa cambiare i fatti. Non è possibile invertire le tendenze in atto”. Parole che rafforzano la narrazione di un Kenya in prima linea contro la crisi climatica, deciso a recuperare oltre cinque milioni di ettari di terre degradate e a ridurre le emissioni di gas serra.
L’entusiasmo e i dubbi
L’annuncio di Nairobi ha suscitato grande entusiasmo a livello internazionale, ma anche interrogativi su fattibilità e impatto reale. Piantare 100 milioni di alberi in un solo giorno non significa garantirne la sopravvivenza, e il tasso di mortalità delle piantine in Africa è spesso elevato se mancano cure, irrigazione e manutenzione nei mesi successivi. Numerosi esperti mettono in guardia dal rischio che campagne di massa si trasformino in eventi più mediatici che ecologici.
Inoltre, la scelta delle specie è cruciale: se da un lato il governo punta su alberi da frutto per assicurare benefici alimentari ed economici, dall’altro resta il timore che parte dei progetti di rimboschimento finisca per privilegiare specie non autoctone o monocolture a scapito della biodiversità. Studi recenti hanno segnalato come in Africa iniziative simili abbiano talvolta alterato ecosistemi naturali di savana o prateria, riducendo la varietà biologica invece di rafforzarla.
Lezioni dal continente
Il Kenya non è il primo Paese africano a tentare operazioni di piantagione record. L’Etiopia, già nel 2019, aveva annunciato la messa a dimora di centinaia di milioni di piantine in poche ore. Progetti di scala continentale come la Grande Muraglia Verde nel Sahel hanno cercato di contenere l’avanzata del deserto, con risultati alterni tra successi locali e fallimenti per carenza di fondi e coordinamento. Ma non mancano esperienze virtuose: il Green Belt Movement, fondato dalla premio Nobel Wangari Maathai proprio in Kenya, ha dimostrato che un approccio comunitario, radicato sul territorio e guidato dalle donne, può avere un impatto duraturo. Anche iniziative come Komaza, che coinvolge piccoli agricoltori nella coltivazione di alberi a uso commerciale, indicano la strada per una riforestazione sostenibile e integrata nei sistemi produttivi.
Una sfida che va oltre i numeri
La giornata del 10 ottobre sarà sicuramente un banco di prova spettacolare, con milioni di volontari e studenti mobilitati in tutto il Paese. Ma la vera partita inizierà il giorno dopo. Se gli alberi piantati riusciranno a crescere, se saranno integrati negli ecosistemi locali, se porteranno cibo, ombra, legname e reddito, allora l’iniziativa potrà diventare un modello globale. In caso contrario, rischia di aggiungersi alla lunga lista di campagne che hanno lasciato più slogan che foreste.