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Cultura

Procida ridiventa Procida ne “L’isola di Arturo”

21.07.2023

Elsa Morante, in un lembo sospeso su un placido mare, ha fatto palpitare le emozioni senza tempo di chi si confronta con una vita in burrasca. Trasformando un’isola in un immaginario mitico che non ha ancora cessato di raccontarsi.

Un’immagine, sotto il sole. Con quelle scogliere erose inframmezzate da ampie spiagge e insenature segrete, l’isola di Procida appare come una minuscola ostrica (3,7 kmq), galleggiante su un lembo di mare azzurro nella Baia di Napoli. L’origine vulcanica la rende scontrosa (chissà?) tale da alimentare miti, storie intricate di pescatori, mercanti e marinai, ma anche di belle fanciulle. La memoria si cristallizza nel ricordo di una vacanza giovanile trascorsa in una terra selvatica ma preziosa perché scrigno senza tempo, dentro un accrocchio di case variopinte, intersecate da «straducce solitarie chiuse tra muri antichi, frutteti, vigneti, e rocce torreggianti che sovrastano l’acqua, e gabbiani dalle voci allegre», e allora Procida (ri) diventa Procida e fa da cornice a quel grande romanzo di formazione che è “L’isola di Arturo” di Elsa Morante.

Un ragazzino orfano di madre, affastellando una serie di istantanee ripercorre le tappe del passaggio dall’infanzia all’adolescenza, tra i turbamenti della crescita: Arturo Gerace, nato da Wilhem nella Casa dei Guaglioni, a Procida ci vive. I confini del suo mondo sono gli stessi confini dell’isola, e quella realtà sognante, alla ricerca continua della verità delle cose, è destinata a sbriciolarsi sotto il peso di una vita ostile. Barche da pesca e mercantili soppiantano quelle eleganti nel porticciolo schivo (ieri, come oggi), e l’azione si srotola a partire dalla mai citata esplicitamente ma presente Chiesa di Santa Maria della Pietà, l’antica Chiesa dei Marinai con nei pressi la statua del Cristo Pescatore, che sorveglia la piazza della Marina, vero punto d’approdo di chi sbarca. Per, poi, inerpicarsi, come fa Arturo quando va a trovare Tonino Stella, amico del padre, fin sulla collina di Terra Murata, con un borgo medievale svettante presidiato dal “Castello” (nel romanzo), cioè Palazzo d’Avalos, trasformato in carcere borbonico dal 1830 al 1988, una sorta di fortezza isolata in mezzo al mare vista dalle navi al largo.

Lassù sul punto più alto, al di là dei compagni libri e delle scorribande in barca con la sua fedele cagnolina Immacolatella fino all’Isola (allora) di Vivara, si dispiega l’insanabile bisogno di affetto del ragazzino sicuro di trovare, lì, eroi degni di rispetto, solo prigionieri di un destino avverso.

Quelle pagine che diventano guida dell’anima, trasmutatasi in narrazione turistica per la geografia dei luoghi toccati, fanno soffiare un sottile alito di libertà, in contrasto con la separatezza di un penitenziario ingombrante, e le apparizioni fugaci di un padre biondo, magro, sfuggente, incapace di sentire la voce di un figlio che saliva al cielo solitaria per tentare di ripristinare il tempo dell’innocenza. Così, quando ci si aggira per i vicoli ritorti e senza sole, nell’incastro magico delle case di Corricella dai colori rosseggianti, giallo paglierino, verde pastello, con i garofani sulle finestrelle, nello stesso luogo caro a Massimo Troisi e al suo “Postino”, proprio allora un riverbero luccicante del mare bacia le conchigliette delle spiagge appartate, offrendo al visitatore quella stessa strana ebbrezza che aveva pervaso il piccolo Arturo.

Chi non vorrebbe come lui tuffarsi ed essere “il pesce più brutto del mare” (uno scorfaniello) per trovarsi laggiù, in quell’acqua a “scherzare” felice?

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