È una mattina come tante a Bergamo, e lungo la linea T2 un tram elettrico scivola silenzioso tra le strade della città. Senza rumore, senza emissioni. Trasporta centinaia di passeggeri, con la promessa di una mobilità più pulita ed efficiente. Un piccolo segnale, concreto e visibile, che racconta di un’Italia che prova a cambiare passo. E gli esempi sono tanti: da Roma a Milano, da Monza a Firenze e Taranto. Tutte città che dimostrano che la mobilità pubblica elettrica può portare benefici tangibili, anche se sul percorso permangono degli ostacoli.
Negli ultimi mesi, infatti, il dibattito pubblico intorno alla mobilità elettrica si è acceso: l’Unione europea ha fissato per il 2035 la fine delle auto a combustione interna, ma l’obiettivo è stato subito messo in discussione. In Italia, per esempio, diversi esponenti politici hanno sollevato dubbi sulla sostenibilità economica di una transizione in questi tempi, paventando rischi per l’industria e per i lavoratori del settore. Una pressione che si è tradotta in un cambio di narrazione da parte del governo: non più “il futuro è già qui”, ma “serve più tempo, servono alternative”. Insomma, la sensazione è che il dossier elettrico sia diventato terreno di scontro ideologico prima ancora che economico. Eppure, dietro ai numeri e agli slogan, c’è un terreno concreto, fatto di scelte industriali già compiute, infrastrutture da costruire e cittadini da convincere.
A raccontare che cosa significhi vivere dal punto di vista imprenditoriale questa fase di transizione è Giovanni Fabi, amministratore delegato di Terravision, azienda specializzata in trasporti su gomma a livello internazionale: “La grande spinta verso la mobilità elettrica, alimentata da ottime intenzioni, si è scontrata con problemi infrastrutturali che non riguardavano e non riguardano solo il mondo dell’automotive. I maggiori gruppi automobilistici hanno riconvertito e integrato da subito le loro linee di produzione per arrivare pronti agli appuntamenti prefissati per il 2035, con tutto quello che ne è conseguito in termini di crisi”. Ma si è dovuto fare i conti con la complessità del sistema che va costruito mettendo assieme risorse private, interventi pubblici, campagne di informazione e formazione.
“Purtroppo”, prosegue Fabi, “la transizione verso una mobilità così radicalmente diversa rispetto a quella esistente si è rivelata più complessa di quanto probabilmente si fosse creduto e tali difficoltà si sono riverberate sugli utenti che, di conseguenza, non hanno risposto secondo le aspettative, condizionando così sia il mercato che le previsioni sulla possibilità di rispettare l’agenda”.
Dunque, la svolta verde dei trasporti è stata davvero un’imposizione dall’alto come parte della classe politica vorrebbe farci credere? “Più che un’imposizione dall’alto”, continua Fabi, “ritengo che la scelta strategica verso una mobilità green sia stata presa in seguito ad un’analisi generale di contesto che, probabilmente, non ha considerato a fondo tutte le variabili necessarie a realizzare una transizione efficace”.
In questo senso, Fabi ricorda che, ad esempio, nella fase iniziale della mobilità elettrica il clima era molto più positivo rispetto ad oggi. All’epoca, ha ricordato, la spinta narrativa era forte e coinvolgente, mentre con il passare del tempo gli incentivi, spesso difficili da ottenere e non sempre realmente accessibili, hanno finito per smorzare l’entusiasmo, sia tra i potenziali acquirenti, sia tra chi proponeva soluzioni sul mercato. Inoltre, aggiunge, la sensibilità ambientale è stata per lungo tempo appannaggio di determinati schieramenti politici, spesso contrapposti a quelli che oggi sono maggioranza in molti Paesi. Questo cambio di prospettiva ha portato in alcuni casi a considerare la tutela dell’ambiente come un tema secondario rispetto alle esigenze economiche, quando invece il vero obiettivo dovrebbe essere intraprendere percorsi di sostenibilità capaci di rafforzare le dinamiche di mercato.
Quali soluzioni, dunque? Secondo Fabi, il settore della pubblica amministrazione può fare da apripista: nel trasporto pubblico, molte delle criticità tipiche dell’elettrico, come autonomia, tempi di ricarica, reperibilità di colonnine, vengono assorbite dalla gestione centrale. Insomma, in questo modo restano solo i benefici: meno emissioni, meno rumore, più possibilità di accesso ai centri storici.
Per uno scatto in avanti, quindi, è necessario affrontare quelli che ad oggi sono gli ostacoli principali: “Serve una presa di coscienza collettiva. La batteria è la parte più costosa e delicata, e in Italia i centri di manutenzione e ricellaggio sono pochissimi. E questo genera diffidenza. È necessario investire in strutture adeguate e parallelamente promuovere nuove convinzioni positive”. In quest’ottica, Terravision Electric porta avanti una best pratice significativa: l’azienda, infatti, ha sviluppato un sistema di recupero e riutilizzo dei materiali che permette di ridurre al minimo gli scarti e di reinserire le componenti preziose nel ciclo produttivo. In questo modo, non solo si abbassa l’impatto ambientale, ma si valorizza l’intera filiera, trasformando quello che potrebbe essere un problema in un’opportunità di sostenibilità e innovazione.
Numeri che confermano (e smentiscono le percezioni)
Le parole di Fabi trovano riscontro nei dati più aggiornati. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia (Aie), nel 2024 le vendite globali di auto elettriche hanno superato i 17 milioni di unità, con una crescita del 25% rispetto al 2023.
Ancora, in Europa la rete di ricarica pubblica è cresciuta di oltre il 35% nel 2024, superando il milione di punti disponibili. In Italia, invece, il percorso resta altalenante: a gennaio 2025 le immatricolazioni di auto elettriche sono state oltre 6.700, registrando un +132%rispetto all’anno precedente, ma sono ancora solo il 5% del mercato totale.
Numeri, questi, che mostrano sì un’accelerazione, ma anche la distanza dai target europei: secondo l’International Council on Clean Trasportation, entro il 2030 il 68% delle nuove immatricolazioni dovrebbe essere elettrico. Un obiettivo ambizioso che, senza un cambio di passo deciso, rischia di non essere raggiunto.
Occorre fare di più perché la mobilità elettrica non è la soluzione in assoluto, ma un tassello fondamentale in un puzzle fatto di innovazioni capaci di ridurre l’impatto ambientale della mobilità (ancora molto alto) e sostenere l’economia. “Dobbiamo pensare”, conclude Fabi, “a infrastrutture intelligenti e a un’intermodalità ampia: mezzi pubblici ecologici, anche a idrogeno, collegati con stazioni, aeroporti e parcheggi di scambio; in parallelo, piste ciclabili e aree pedonali che valorizzino i centri storici”. Solo così si cambia davvero il volto delle città. Perché la sfida non è chiedersi elettrico sì o elettrico no, ma come farlo diventare parte della vita quotidiana.