12 Ottobre 2025
/ 10.10.2025

A Gaza ora c’è da far pace con l’ambiente

L'impatto del conflitto non si limita alla morte di decine di migliaia di persone: l'enorme mole di macerie, la contaminazione delle acque e la devastazione agricola proiettano i tempi di ripristino in un futuro lontano. Il 92% dell’acqua è non potabile

Un cessate il fuoco duraturo è il primo passo di un percorso di ricostruzione che si prospetta lungo decenni. Secondo le stime aggiornate della Banca Mondiale, i costi di ricostruzione per Gaza ammontano ora a 80 miliardi di dollari. Questa cifra rappresenta un aumento significativo rispetto ai 53 miliardi di dollari stimati in precedenza per Gaza e Cisgiordania e sottolinea la crescente entità della devastazione. L’istituto di credito multilaterale ha specificato che si tratta di una cifra pari a quattro volte il Pil combinato di Cisgiordania e Striscia di Gaza nel 2022.

Il costo più pesante, in termini di tempo e di salute pubblica, è quello ambientale. La vastità dei danni, dalla contaminazione idrica alla distruzione del suolo agricolo, aggiunge una dimensione inedita e critica al piano di ripristino.

Il viaggio delle macerie durerà 21 anni

La devastazione bellica ha prodotto, secondo le Nazioni Unite, oltre 53 milioni di tonnellate di macerie da rimuovere. L’operazione, da sola, è proiettata su un arco temporale di circa 21 anni, con un costo stimato di 1,2 miliardi di dollari.

Un’analisi condotta dai ricercatori dell’Università di Edimburgo e di Oxford, Samer Abdelnour e Nicholas Roy, offre un dettaglio sull’impresa logistica. I detriti dagli edifici distrutti richiederebbero oltre 2,1 milioni di carichi di autocarri ribaltabili.

Il trasporto di questa mole di detriti comporterebbe un tragitto cumulativo di 29,5 milioni di chilometri, l’equivalente di 736,5 volte la circonferenza terrestre. Le emissioni di CO2e derivanti solo da questo trasporto andata-ritorno sono stimate in 65.642,40 tonnellate.

Più critico è il processo di lavorazione per il riutilizzo dei materiali. Se non sarà possibile accedere a grandi frantoi industriali (attualmente non disponibili a Gaza), il lavoro di frantumazione delle macerie non contaminate, necessario per ricavare aggregati per la ricostruzione, si estenderebbe per più di 37 anni con l’uso di macchinari più piccoli, generando inoltre emissioni di CO2e otto volte superiori rispetto allo scenario industriale.

La minaccia nascosta

L’aspetto più pericoloso risiede nella contaminazione. Secondo l’Unep (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente), l’area è contaminata da materiali pericolosi, tra cui amianto, piombo e residui di munizioni. Si stima che oltre 800.000 tonnellate di detriti siano contaminate da amianto. La rimozione e il trattamento sicuro di questi “rifiuti pericolosi” sono resi estremamente complessi dalla presenza di ordigni inesplosi (un 5%-10% delle armi esplosive potrebbe non essere detonato) e, tragicamente, di resti delle vittime, come sottolineato dagli autori dello studio.

Agricoltura e acqua: il crollo del sistema alimentare

Oltre alla devastazione urbana, il conflitto ha colpito il cuore della sussistenza di Gaza: l’agricoltura. Secondo l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura, la distruzione da parte di Israele ha lasciato i palestinesi con accesso a solo l’1,5% dei terreni coltivabili accessibili e adatti alla coltivazione.

Prima del conflitto, l’agricoltura rappresentava circa il 10% dell’economia e sostentava, almeno in parte, oltre 560.000 persone. Entro la fine di luglio 2025, Israele aveva danneggiato l’86% dei terreni agricoli (quasi 13.000 ettari), e le forze israeliane hanno sistematicamente preso di mira frutteti, serre e banche dei semi, come documentato dalla Fao.

Questa distruzione, che nel Nord di Gaza ha raso al suolo il 94% dei terreni più fertili, ha portato, secondo il direttore generale della FAO Qu Dongyu, Gaza “sull’orlo di una carestia su vasta scala”, dove le persone muoiono di fame non per mancanza di cibo globale ma per blocco dell’accesso e crollo dei sistemi agroalimentari locali. Michael Fakhri, relatore speciale Onu sul diritto al cibo, ha denunciato al Guardian che Israele ha costruito “la macchina della fame più efficiente che si possa immaginare”.

A completare il quadro, la crisi idrica: il 92% dell’acqua è non potabile e le falde acquifere risultano contaminate, come riportato dall’Unep.

La ricostruzione

La devastazione è quasi totale: oltre 67.000 le vittime, danneggiato o distrutto più del 90% delle abitazioni e più dell’80% delle infrastrutture, inclusi ospedali e scuole.

Di fronte a questo scenario, la Global Climate Review sottolinea la necessità improrogabile di integrare considerazioni ambientali nei piani di ricostruzione. Un approccio sostenibile è l’unica via per mitigare l’impatto, che sarà già di per sé significativo in termini di emissioni di gas serra. Questo implica il riutilizzo dei materiali bonificati, la progettazione di nuove strutture a basse emissioni di carbonio e una gestione sostenibile delle risorse idriche e dei rifiuti.

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